L’ipocrisia dell’Europa e del G20 sulle blacklist dei paradisi fiscali

Sull’onda dell’indignazione generata dallo scandalo dei Panama Papers, alla fine di maggio i ministri delle Finanze dell’Unione europea hanno deciso di stilare una backlist europea dei paradisi fiscali. Naturalmente nel loro comunicato non parlano espressamente di paradisi fiscali né di liste nere. Li definiscono più pudicamente «giurisdizioni non cooperative» e specificano che si tratterà di paesi terzi, cioé non aderenti all’Unione europea. La Commissione europea ha avviato le procedure per definire il nuovo elenco e la lista dovrebbe essere pronta entro la fine del 2017. Il 5 settembre anche i paesi del G20 riuniti in Cina hanno inserito una frase nel comunicato finale nella quale affermano testualmente: “Appoggiamo le proposte formulate dall’Ocse, lavorando con membri del G20, sui  criteri oggettivi per identificare le giurisdizioni non cooperative riguardo alla trasparenza fiscale”. Anche in questo caso, però, le parole blacklist e paradisi fiscali non compaiono nel comunicato.

Ben venga un maggiore impegno comune contro i paradisi fiscali ma le iniziative della Ue e dei leader del G20 nascondono una buona dose di ipocrisia. I paradisi fiscali, infatti, non sono solo un problema esterno ai maggiori paesi del mondo e alla Ue ma anche e soprattutto interno. In primo luogo quando si parla dell’Unione europea. I paradisi fiscali che creano più problemi ai conti (disastrati) di molti paesi Ue sono proprio quelli dentro i confini della stessa Unione oppure legati ai paesi Ue da trattati e da vincoli storici. Ma questo i leader europei faticano ad ammetterlo.

La rete della Gran Bretagna

La Gran Bretagna, per esempio, è al centro di una rete di paradisi fiscali che alimentano la City di Londra procurandole il gigantesco volume d’affari sul quale prospera l’industria dei servizi finanziari più efficace e ramificata del mondo. E’ vero che il paese abbandonerà la Ue dopo il referendum sulla Brexit, ma l’uscita non ha ancora una data certa.
Secondo il giornalista britannico Nicholas Shaxson, il primo cerchio di questo network è costituito dalle dipendenze della Corona: Jersey, Guernsey e l’Isola di Man, che fanno affari specialmente con Europa, Russia e Medio Oriente. Il secondo cerchio è composto dai territori britannici d’oltremare e da un gruppo di paesi del Commonwealth, come le Cayman e le Bermuda, che raccolgono capitali provenienti soprattutto dalle due Americhe.
Se le Cayman, le Bermuda, le Isole vergini britanniche o le Isole Cook non possono certamente dirsi europee, se non altro per ragioni geografiche, le isole del Canale (Jersey e Guernsey) e l’Isola di Man sono totalmente interconnesse all’Europa. Sono di proprietà della Corona britannica e non rientrano nella giurisdizione dell’Unione europea ma sono veri e propri paradisi fiscali dove proliferano trust, fondazioni e società utilizzate per schermare i reali beneficiari economici.

Gli altri gruppi, dall’Europa agli Usa

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Un secondo gruppo del network globale dei paradisi fiscali è incastonato dentro i confini dell’Unione europea. Il caso del Lussemburgo, per esempio, è stato portato alla ribalta dell’opinione pubblica due anni fa con la diffusione dei documenti sugli accordi fiscali che garantivano alle multinazionali di pagare imposte irrisorie. Eppure da due anni il presidente della commissione europea, Jean Claude Juncker, è lussemburghese. E il Lussemburgo ha condannato Antoine Deltour, l’uomo che ha rivelato al mondo l’esistenza degli accordi segreti di tax ruling.
E poi ci sono la Svizzera, legata alla Ue da trattati e accordi di cooperazione, il Liechtenstein, Andorra, Montecarlo. L’Irlanda e l’Olanda sono due paesi membri a pieno titolo, eppure sono ampiamente utilizzati dalle società negli schemi aggressivi di “ottimizzazione fiscale” che impoveriscono gli altri stati membri dell’Unione.
Il terzo gruppo della rete è costituito dai paradisi fiscali asiatici: Hong Kong, Singapore, Macao e Labuan in Malaysia.
Infine c’è la rete che gravita attorno agli Stati Uniti, come il Belize e Panama. Per non parlare di alcuni stati degli Usa come il Delaware, il Nevada o il Wyoming dove il numero di società schermo domiciliate continua costantemente ad aumentare.

Il pasticcio delle liste

Sulle liste nere, grigie e bianche in passato si sono quasi sempre sollevate feroci polemiche politiche. Nel 2000 l’Ocse ha pubblicato la sua prima blacklist che elencava 35 paesi, tra i quali le Bahamas, Jersey, il Liechtenstein, Panama, le Isole vergini britanniche. La Svizzera, paese membro dell’Ocse non figurava nell’elenco. L’iniziativa dell’Ocse aveva sollevato però sin da subito reazioni coleriche. Nel 2001, poi, la nuova amministrazione americana cambia rotta sulla lotta ai paradisi fiscali e la lista nera dell’Ocse subisce un primo scossone.
Nella riunione del G20 del 2009 i leader dei principali paesi industrializzati prepararono una lista nera dei paesi considerati a pieno titolo paradisi fiscali. Nell’elenco figuravano però soltanto quattro stati: Costa Rica, Filippine, Malaysia e Uruguay. Altri 38 paesi erano elencati nella lista grigia, che raggruppava gli stati che ancora non non si comportavano in maniera virtuosa secondo gli standard internazionali. In questo gruppo erano presenti alcuni paesi dell’Unione europea: Austria, Lussemburgo e Belgio.
Gli elenchi, come al solito, avevano subito acceso le polemiche, soprattutto per i criteri davvero blandi per uscire dalla lista nera o da quella grigia: bastava sottoscrivere almeno 12 trattati bilaterali di scambio di informazioni fiscali rispettando gli standard dell’Ocse allora in vigore. Gli stati dovevano cioé impegnarsi a scambiare le informazioni a richiesta delle autorità fiscali dell’altro paese firmatario quando quest’ultimo avesse già degli elementi concreti sui titolari dei conti per i quali veniva avviata la richiesta di cooperazione. Seguì così un periodo di intensa attività sul fronte diplomatico per firmare trattati anche con piccoli staterelli e le liste si dissolsero.
Dagli elenchi, nel frattempo, era uscita anche Hong Kong in seguito alle forti pressioni esercitate dalla Cina mentre la Gran Bretagna aveva provveduto a non far rientrare Jersey, Guernsey e l’Isola di Man. Già un mese dopo la conclusione del G20 di Londra, nel maggio 2009, Panama era uscita dalla lista nera e oggi sul sito dell’Ocse si può leggere testualmente: “Attualmente nella lista dei paradisi fiscali non cooperativi del Comitato degli affari fiscali dell’Ocse non figura alcuna giurisdizione”

«Les paradis fiscaux, c’est terminé»

Negli ultimi anni i G20 che si sono succeduti hanno certamente preso iniziative che hanno contribuito a rendere più difficile la vita dei paradisi fiscali ma non sempre agli annunci sono seguiti i fatti. Nel 2009 l’allora presidente francese, Nicholas Sakozy sentenziò solennemente la fine dei paradisi fiscali scandendo le parole: «Les paradis fiscaux, c’est terminé». Ma i Panama Papers ci hanno ricordato che esistono ancora e, nonostante tutto, sono in grande salute. Per questo la notizia della blacklist comune europea non deve trarre in inganno e soprattutto non deve creare false aspettative.

La blacklist Ue del 2015

Del resto, l’Unione europa non è nuova ad annunciare la creazione di blacklist.  L’anno scorso la Ue aveva già pubblicato una lista di giurisdizioni “non cooperative”. In tutto 30 stati, gran parte dei quali nei Caraibi: Anguilla, Antigua & Barbuda, Bahamans, Barbados, Belize, Isole vergini britanniche, Cayman, Grenada, montserrat, St. Kitts & Nevis, St. Vincent & Grenadine, Turks & Caicos, Isole vergini  statunitensi. Poi c’erano gli stati del Pacifico: Isole Cook, Isole Marshall, Nauru, Niue, Vanuatu. In Asia nella lista figuravano il sultanato di Brunei, Hong Kong e Maldive. Per l’Africa erano presenti la Liberia, Muritius e Seychelles. In America le Bermuda e Panama. Infine in Europa c’erano Andorra, Guernsey, il Liechtenstein e Monaco. Nessuna presenza di paesi della Ue come Lussemburgo, Olanda o Irlanda ma nemmeno della vicina Svizzera. La politica, spesso, è più forte della logica e tra blacklist annunciate, modificate o ritirate la credibilità delle istituzioni internazionali che dovrebbero lottare contro la grande evasione fiscale internazionale ne esce piuttosto malconcia, per non dire a pezzi.

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angelo.mincuzzi@ilsole24ore.com