La trasformazione digitale minaccia le nostre democrazie? È una delle domande che affollano la mente dopo aver letto il libro “Siamo uomini o digitali?” (Castelvecchi), scritto da Derrick De Kerckhove, sociologo, filosofo e accademico, e da Dionisio Ciccarese, giornalista di lungo corso e docente al Master di giornalismo dell’Università di Bari.
Non è una domanda da poco in uno dei momenti più difficili della nostra storia più recente, con le guerre che colpiscono e circondano l’Europa e con l’avanzare delle autocrazie (per non definirle dittature), come in Russia e in Cina. La geopolitica rende il nostro globo più confuso e dunque per cercare alcune risposte conviene leggere il libro di De Kerckhove e Ciccarese.
“Singapore è il nuovo modello di ingegneria sociale che evoca la trasparenza, ma incorpora nel suo esempio insidie e rinunce tutt’altro che trascurabili – scrive Ciccarese nell’introduzione -. Tutto è regolato da raccolta e analisi dei dati. In pratica un governo degli algoritmi. Un nuovo assetto sociale che impone un approfondimento sul piano della tecnico-etica e richiede garanzie nelle regole del gioco democratico. Giornali, radio e televisione, oggi il web con i social, sono strumenti di cui si parla come grandi opportunità di democrazia: vero, verissimo. Tuttavia, spesso, paradossalmente sono serviti alle dittature”.
Le nostre vite e la privacy
Già, le dittature. O le autocrazie. Gli algoritmi. La nostra schiavitù verso i social, i telefonini, il computer. Da controllore, l’uomo è diventato controllato. Già, ma da chi? E quanto, questo controllo, può influire sulle nostre scelte, sulle nostre opinioni e sui nostri comportamenti? In pratica, quanto può condizionare le nostre moderne democrazie?
Tutto parte dalla decisione – solo nostra – di riversare le nostre vite dentro uno smartphone e, dunque, riversarle dentro i social network.
“Il vero problema – dice De Kerckhove – è che la maggior parte della gente non si preoccupa affatto della propria privacy. La privacy è ciò che ricordano vagamente come qualcosa che davano per scontato. Ma non è una priorità in una cultura che sta perdendo la sua interiorità. L’Inquisizione spagnola aveva bisogno di torturare il corpo per avere accesso alla mente, un fatto che dimostra che, effettivamente, c’era una mente lì, una resistenza mentale che doveva essere superata. Oggi quella resistenza non c’è più, quindi non c’è bisogno della tortura, solo della persuasione seguendo semplicemente i modelli del nostro comportamento”.
Poche volte riflettiamo su questo aspetto delle nostre moderne abitudini. Ci affidiamo ai social network e ai suoi algoritmi. Che sono misteriosi, indecifrabili. Ma che uso ne fanno – i padroni dell’algoritmo – di tutte le informazioni che raccolgono sulle nostre vite? Informazioni, beninteso, che siamo noi – spontaneamente – a fornire loro.
Gli algoritmi e il fascismo
Gli algoritmi, come il fascismo – scrivono De Kerckhove e Ciccarese -, non si preoccupano delle opinioni della gente, favoriscono l’ordine sociale rispetto alle libertà individuali di espressione o di azione. Ecco perché il digitale ci sta trasformando. E poiché si tratta di un processo irreversibile dobbiamo capire come e se è possibile governare questa trasformazione.
Ciò che appare chiaro, infatti, è che non si può tornare indietro. La tecnologia ha impresso accelerazioni sempre più imponenti, spiegano gli autori del libro. Per 1.700 generazioni l’uomo ha sviluppato solo il linguaggio orale, nelle successive 300 si è cimentato con la crescita della scrittura, per altre 35 ha scoperto e ha affinato la stampa. All’inizio del Novecento è cominciata un’evoluzione dai ritmi vertiginosi: telegrafo e fotografia (1910), telefono e film muto (1925), radio e film sonoro (1940), tv e mass media (1955), fax ed elettronica (1970), Pc e networking (1985), always on e web (2000), Big Data, blockchain (2015), e Gpt-2 (2020).
Il “sentito dire” di ieri è diventato “l’ho letto su internet”, senza verifica di fondatezza anche scientifica o autorevolezza delle fonti. “I contenuti della nostra memoria sono nel telefonino. Il controllo del nostro destino ci sfugge di mano insieme con la nostra privacy”, avvertono gli autori del libro.
Urlo, linguaggio e scrittura hanno bisogno del senso, del significato, dell’interpretazione per essere percepiti e restituire una reazione. L’algoritmo no, per la prima volta c’è qualcosa che non ha bisogno di un senso per generare un effetto sulla realtà. Perché “al digitale non frega nulla dell’uomo. Non è un suo problema, perché il digitale non è al nostro servizio. Siamo noi a esserne succubi”.
È il primo grande campanello d’allarme. L’uomo è succube del digitale. Ma non solo. “L’uomo si sta svuotando delle sue facoltà cognitive ed è travolto dalla manipolazione algoritmica. Siamo sempre più tracciati, valutati, puniti e ricompensati. Vedrete che accadrà sempre più spesso. Andiamo verso un modello di controllo che va ben oltre i fascismi del secolo scorso”.
I pericoli della “Datacrazia”
Attenzione, dicono dunque gli autori di “Siamo uomini o digitali?”. Le forme di controllo esercitate dagli algoritmi possono essere più insidiose dei fascismi del secolo scorso. C’è di che riflettere attentamente.
Ciò che è già nato in alcune realtà, dicono gli autori, è una forma di governo delle persone che De Kerckhove e Ciccarese chiamano “Datacrazia”. “In Cina i comportamenti virtuosi sono premiati con i social reddit – spiega il professore belga naturalizzato canadese, che per molti anni ha lavorato con Marshall McLuhan -. Benché si tratti di una profilazione di massa che non ha precedenti, il sistema (che valuta i cittadini su cinque aree: comportamento civico, onestà negli affari di governo, integrità commerciale, integrità sociale e credibilità giudiziaria) non dispiace ai cinesi per i vantaggi che comporta ma anche perché segna un ritorno al Confucianesimo”.
Stiamo assistendo all’instaurarsi di due modelli autoritari: uno plateale, l’altro strisciante, è il ragionamento degli autori del libro. Da un lato c’è la Cina, dunque. Poi ci sono forme più o meno striscianti che vanno dal modello degli Stati Uniti a quelli di Brasile, Ungheria, Turchia e Russia. In questi ultimi l’opposizione è molto più vivace anche perché sempre più di tratta di società fortemente polarizzate in cui la povertà dilaga e la ricchezza è concentrata sempre più nelle mani di poche persone. In ogni caso, si tratta di forme che fanno leva soprattutto sulla paura. Diffondere paura per “vendere sicurezza” è un espediente che molti governi stanno utilizzando per rastrellare consensi.
Il potere dei dati
Eccola la “Datacrazia”. “Oggi il potere, con la diffusione delle tecnologie digitali e della cultura algoritmica, è nei dati. O meglio, in chi li possiede e li può analizzare – scrivono gli autori -. Senza dubbio siamo governati dalla “Datacrazia” e questo, beninteso, va oltre i confini politici dei singoli Paesi così come siamo abituati a considerarli. La “Datacrazia” è una medaglia con due facce. Quella delle persone che entrano nel “sistema” per effetto della trasformazione digitale e fin qui non c’è nulla di perverso. Ma c’è poi la faccia dell’uso dei dati per fini speculativi. Fini che possono essere politici, economico-finanziari o, come abbiamo visto anche durante la pandemia, che puntano a diffondere notizie false “costruendo” i gruppi negazionisti. In pratica tutto ciò che facciamo oggi produce dati”.
Riusciremo a far sopravvivere la democrazia alla “Datacrazia”, chiede Ciccarese a De Kerckhove? “Si può fare solo con un’azione politica che partendo dai cittadini trovi ascolto nei governi – risponde il sociologo – Ma non ci credo troppo. La democrazia non conviene al digitale. La democrazia è nata dal potere individuale dato a ognuno da parte della lettura e della scrittura che ha permesso di appropriarsi silenziosamente del linguaggio per uso personale. Il demos (popolo) si è costituito come un’assemblea di individui teoricamente uguali grazie a questa condizione. Però abbiamo visto nel tempo che questo potere di affermazione e di resistenza delle persone s’indebolisce con l’esternalizzazione delle nostre facoltà all’intelligenza artificiale. Per superare questa sfida ed evitare il modello cinese , la selezione della classe dirigente oggi assume un valore enorme, come forse non ha mai avuto. Abbiamo la necessità in tutto il mondo, ma in Europa in particolare, di una classe dirigente di straordinario profilo culturale ed etico capace di liberaci dalle catene che ci tengono legati alle perversioni del sistema digitale”.
La riscoperta della carta
Dunque, bisognerà schierare gli uomini migliori per garantirci un futuro democratico. Ma sarà possibile?
Nessuno è in grado di dirlo, ma alcune soluzioni gli autori del libro le indicano. Per esempio, la riscoperta della carta al posto dei social. “La carta è l’unico posto in cui la parola si ferma. Non è così per pensiero, radio, tv, schermi e internet – scrivono -. Dobbiamo evitare che le facoltà cognitive dei nostri ragazzi (e per prima la memoria) siano consegnate a una macchina che ricorda, calcola, disegna e, in un tempo forse non troppo lontano, penserà e deciderà per lui”.
Ma dobbiamo anche essere capaci di modificare le nostre scelte. Proviamo a considerare il nostro comportamento quando siamo in una nuova città, è il consiglio di De Kerckhove e Ciccarese. Un tempo ci informavamo sui percorsi, chiedevamo notizie sui ristoranti, sui mezzi pubblici, sulle distanze. Oggi la nostra prima preoccupazione è la connessione perché tutte le risposte (con maggiore precisione) sono nel nostro smartphone. Non ci interessa sapere subito da che ora e dove si fa colazione, perché la prima domanda è: qual è la password per il wi-fi? È il frutto di quel processo di esternalizzazione di tutte le informazioni. La mancata connessione è una dannazione, una disperazione. Ci sentiamo perduti. Veniamo proiettati in una specie di condizione di “Alzheimer digitale” e ci vengono meno i punti cardinali essenziali per il nostro orientamento.
E allora? Come si scongiura il rischio di omologazione? Quali armi abbiamo? “Senza dubbio la resistenza individuale – è la risposta di De Kerckhove -. Se aderiamo passivamente ai modelli che ci impongono il sistema, la cattiva politica o i potentati finanziari attraverso la tv o il web siamo spacciati perché rispondiamo alle logiche che sono proprie del robot. Io sono convinto che il contenuto che dà luogo alla resistenza individuale nasce e si sedimenta con la lettura sulla carta”.