Perché l’evasione fiscale non suscita riprovazione sociale in Italia? Perché una parte degli italiani continua ad ammirare gli evasori nonostante siano loro stessi vittime dei comportamenti antisociali di chi non paga le imposte? Me lo chiedo ogni volta che leggo i dati sull’evasione fiscale nel nostro Paese e ogni volta che mi trovo in uno dei tanti paradisi fiscali europei. Osservo le città, le strade, la gente e mi chiedo perché le persone non facciano nulla per combattere questa situazione. Mi domando quale sia il meccanismo che scatta nelle menti umane e che spinge uomini e donne ad ammirare chi li relega in una posizione di sottomissione, come delle vittime che adorano i propri carnefici.
Ho deciso di affrontare questo tema in un capitolo del mio ultimo libro, “Europa parassita – Come i paradisi fiscali europei ci rendono tutti più poveri” (Chiarelettere) perché questa situazione mi ricorda quel particolare stato di dipendenza psicologica che in alcuni casi si manifesta nelle vittime di episodi di violenza e che viene definito con il nome di «sindrome di Stoccolma». Durante i maltrattamenti subiti, le vittime provano un sentimento positivo e di solidarietà nei confronti dei loro aggressori, uno stato d’animo che può spingersi fino alla totale sottomissione volontaria.
L’espressione «sindrome di Stoccolma» era stata coniata dal criminologo e psicologo svedese Nils Bejerot, che aveva analizzato un caso accaduto a Stoccolma nel 1973. Il 23 agosto di quell’anno Jan-Erik Olsson (nella foto in alto), un ladro e scassinatore di trentadue anni evaso dal carcere, entrò nella sede principale di una delle più grandi banche di Stoccolma, la Sveriges Kreditbanken. Olsson era stato condannato nel febbraio 1972 per furto aggravato dopo essere stato sorpreso da un’anziana coppia mentre saccheggiava la loro casa. Era stato arrestato e aveva scontato circa la metà della sua condanna di tre anni nel penitenziario di Kalmar, a sud di Stoccolma, ma era fuggito mentre era in congedo, un paio di settimane prima del suo arrivo alla Kreditbanken.
Armato di mitra, Olsson entrò in banca e sequestrò nella camera di sicurezza quattro persone: la cassiera Elisabeth, ventuno anni, la stenografa Kristin, ventitré anni, Brigitte, trentuno anni, impiegata, e Sven, venticinque anni, assunto da pochi giorni. Per rilasciarli, Olsson chiese alla polizia più di 700.000 dollari in valuta svedese e straniera, un’auto per la fuga e il rilascio di Clark Olofsson, un uomo che stava scontando una pena in carcere per rapina a mano armata e complicità nell’omicidio di un agente di polizia.
Nel giro di poche ore le autorità portarono Olofsson nella banca e consegnarono al rapinatore il riscatto e una Ford Mustang blu con il pieno di benzina. Rifiutarono però di consentirgli di partire con gli ostaggi al seguito. Rapinatori e prigionieri rimasero così per quasi sei giorni chiusi nel caveau della banca. Il locale era simile a un corridoio, lungo circa 16 metri, largo poco più di tre e mezzo con una parete occupata dalle cassette di sicurezza e aveva il pavimento ricoperto di moquette. Olsson si arrese solo quando la polizia riuscì a bucare il soffitto della stanza e a immettere dei gas lacrimogeni per costringerli a uscire.
Gli psicologi che si presero cura degli ostaggi dopo la rapina scoprirono che tra il rapinatore e le vittime si era creata una relazione insolita e che gli ostaggi temevano più la reazione della polizia che quella di Olsson. Furono parecchi gli episodi raccontati dai quattro dipendenti della banca che confermarono questo legame.
La «sindrome di Stoccolma» non spiega però del tutto i sentimenti di ammirazione verso un’entità astratta e lontana, senza alcun contatto fisico con le sue vittime, come sono gli evasori fiscali. In altre parole, gli atteggiamenti degli ostaggi della rapina nella banca di Stoccolma erano sicuramente stati indotti dal fatto che le quattro vittime erano costrette a vivere nello stesso ambiente dei loro carcerieri. Chi subisce gli effetti dell’evasione fiscale, sotto forma di servizi pubblici scadenti, mancanza di sussidi contro la povertà e aumento delle disuguaglianze, non conosce però il viso dei suoi «carcerieri». E allora, come si può spiegare questo atteggiamento?
Un documento che mi ha sempre affascinato è il “Discorso sulla servitù volontaria” di Étienne de La Boétie, un filosofo, poeta e umanista vissuto in Francia nel Cinquecento e morto all’età di trentatré anni. Non si sapeva quando esattamente de La Boétie aveva scritto il Discorso. Probabilmente tra i sedici e i ventitré anni di età. E non esiste una copia del manoscritto originale, che fu probabilmente consegnato al suo amico Michel de Montaigne, anche lui filosofo del rinascimento francese.
De La Boétie si chiedeva «come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città, tante nazioni, a volte sopportino un solo tiranno, che non ha altra potenza se non quella che essi gli concedono; che non ha potere di nuocere, se non in quanto essi hanno la volontà di sopportarlo; che non saprebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo anziché contrastarlo. Si tratta di una cosa enorme, certo – proseguiva de La Boétie all’inizio del suo scritto – e tuttavia talmente comune da doversene più affliggere che stupire: vedere un milione di uomini servire in modo miserabile, il collo sotto il giogo, non costretti da una forza superiore, ma in qualche modo (così sembra) incantati e affascinati dal solo nome d’uno, di cui non devono temere la potenza, perché è solo, né amare le qualità, poiché è inumano e selvaggio nei loro riguardi».
E dunque, concludeva de La Boétie, «voi potreste liberarvi se provaste non a liberarvene, ma soltanto a volerlo fare. Decidetevi a non servire più, ed eccovi liberi».
È possibile che gli stessi meccanismi mentali scattino in alcuni di noi quando pensiamo a un evasore fiscale che, privando il Paese delle risorse necessarie a farlo funzionare, danneggia tutti gli altri. Il problema dell’Italia è forse anche culturale. Ma questo è un discorso che merita un altro approfodimento.
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