«Io, talento all’estero e la mia Italia che promuove i mediocri»

Alberto Pasa (nella foto in alto) fa parte della schiera dei giovani “cervelli in fuga”, anche se molto probabilmente non amerebbe questa definizione. Forse sarebbe più giusto inserirlo nella schiera degli italiani che considerano il mondo, e non più solo l’Italia, come orizzonte della propria vita professionale. Per questo motivo il suo punto di vista sulla situazione italiana ha un valore e un significato importante. Alberto ha voluto esprimere la sua opinione nel dibattito sulla “mediocrazia” suscitato dal libro “La Médiocratie” del filofoso canadese Alain Deneault. Ecco cosa ha scritto.

Mi chiamo Alberto Pasa, ho quasi trent’anni e sono nato a Genova, attualmente vivo e lavoro a Birmingham, in Gran Bretagna, da poco più di due anni. Prima di arrivare in Gran Bretagna, nel novembre 2014, ho vissuto e lavorato per quasi due anni in Cina per conto di una grande azienda italiana, con la quale ho cominciato a lavorare in Italia durante uno stage nel 2010, appena laureato.
Mi è capitato di leggere il post “La mediocrazia ci ha travolti, così i mediocri hanno preso il potere” e ho sentito subito la necessità di scrivere per condividere alcuni ragionamenti, riflessioni e quesiti che l’articolo ha suscitato in me.

Leggi il post La “mediocrazia” ci ha travolti, così i mediocri hanno preso il potere

La prima cosa che ho pensato mentre leggevo è stata: «È proprio così, è proprio vero, Deneault ha ragione». Leggendo il paragrafo dove spiega chi sono i mediocri e come il sistema incoraggi la loro ascesa al potere, mi sono chiesto se effettivamente anche nel mio piccolo e al netto delle mie esperienze, di ciò che sento, leggo e vivo, io abbia la stessa impressione. La risposta è stata nuovamente: purtroppo sì.
Forse sarà la mia età, ma faccio fatica ad accettare che sia proprio così. Perché il sistema promuove l’ascesa dei mediocri a scapito dei supercompetenti, quelli appunto che dovrebbero essere in grado di mettere in discussione il sistema? Sarà che incosciamente anche a noi va bene così?
La politica, l’economia, l’attualità e ovviamente la storia mi hanno sempre appassionato. Nel mio percorso di studi ho avuto modo di approfondire queste discipline con una forte impronta comparativa, ho avuto l’occasione di osservare diciamo da un altro punto di vista le vicende politiche che hanno caratterizzato il nostro paese e mi ritrovo molto in quello che lei scrive.
Il concetto di governance, di “giocare il gioco”, di sottostare alle regole del gioco stesso senza mai metterle in discussione veramente, sembrano essere le caratteristiche principali che un politco o un amministratore pubblico debbano avere per avere successo.

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Sono dell’avviso che il sistema si cambi dall’interno, credo che nel corso della storia chi è riuscito ad apportare cambiamenti che hanno modificato le “regole del gioco e di ingaggio” sono stati coloro che nel sistema ci sono entrati e, dopo averne capito il meccanismo, hanno promosso i cambiamenti e hanno apportato l’innovazione necessaria ad adeguare il sistema politico e pubblico alla società.
Ripeto che faccio grande fatica a capire perché questo accada, perché oltre non avere senso logico credo che a trarne beneficio siano in pochi.
Dopo aver letto l’articolo ho cercato di capire se nella mia esperienza lavorativa (sempre nel settore privato) abbia incontrato parecchie di queste figure. Perché la domanda che mi sono posto è: «Siamo proprio sicuri che questo non accada anche nel settore privato?».
Sebbene la mia esperienza lavorativa sia abbastanza limitata, viaggiando e soprattutto lavorando in un settore come quello degli acquisti ho avuto e sto avendo l’occasione di conoscere diverse realtà aziendali, dalle piccole e medie, fino alle multinazionali. In Italia ho lavorato e attualmente lavoro in un’azienda con più di 5mila dipendenti, quindi organizzazioni complesse, con correnti di potere, politiche interne e gerarchie complicate.

Ciò che ho avuto modo di constatare è che la meritocrazia e il talento, forse perché utili e fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi, hanno maggiore risalto in organizzazioni del genere. Certo, esistono raccomandazioni e favoritismi, ma la competizione e la pressione sono talmente forti che per fare carriera e raggiungere ruoli di rilievo avere talento, quindi non essere mediocri, è una condizione necessaria.

Ma allora non esistono i mediocri ai livelli alti?

Purtroppo invece esistono, e sono tanti. La mia impressione è che persone talentuose, innovative e motivate facciano carriera e poi, una volta raggiunto un certo livello dirigenziale, si accomodino, rallentino gradualmente sino a fermarsi. In sostanza si adattano al sistema che trovano e non fanno nulla per modificarlo, per innovarlo. In sostanza diventano mediocri. E lo sa qual è la loro principale caratteristica? Il problem solving.
Perché questa può essere una capacità decisamente positiva se comporta cambiamento e innovazione nella risoluzione dei problemi, ma è invece terribilimente negativa se intesa come via per non risolvere i problemi, ma per trovare soluzioni veloci e di breve termine, che permettano di mostrare ai vertici (direttori, imprenditori piuttosto che consiglieri di amministrazione) che il problema è risolto, che è stato accantonato. Quando invece i problemi vanno analizzati, elaborati e infine risolti. Soprattutto nelle aziende private.

Mi dispiace dirlo, ma questo tipo di processo l’ho visto principalmente in realtà italiane.

Forse, complice la crisi economica prolungata che ha colpito il nostro paese, forse complice anche la paura di non trovare un altro posto di livello dirigenziale, ho incontrato e conosciuto parecchi dirigenti con una caratteristica in comune: l’immobilismo.

La mia impressione è che paradossalmente questo approccio ha comportato la stagnazione dello status quo e ha innescato un processo di continua riduzione e contrazione. Faccio un esempio: quando lavoravo in Italia ero abituato a guardare con sospetto chi, ad esempio, usciva dall’ufficio in orario. Ma chi finiva in orario poteva permetterselo perché non aveva nulla da fare, altrimenti si sarebbe giustamente fermato più a lungo. Ho cominciato il mio percorso di formazione professionale con l’idea che il lavoro che facevano in tre poteva essere tranquillamente fatto da due, ma non grazie all’introduzione di innovazioni o a una maggiore efficienza nei processi, bensì perché quei tre lavoravano poco.
Mi rendo conto che questa è solo la mia impressione, supportata principalmente da esperienze personali. Però sono dell’avviso che sia iniziato un circolo vizioso che abbia portato chi lavora in Italia in una condizione di pressione e competizione tale per cui fare proposte innovative, magari controcorrente, è diventato troppo rischioso. Sto avendo la possibilità di constatare in prima persona cosa significhi lavorare meno ma lavorare meglio. La pressione del risultato è la stessa, talvolta se vogliamo maggiore. La competizione non è diversa. Ciò che invece è diverso è il rispetto del lavoro, sia quello proprio sia quello degli altri.

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Mi sono accorto di come questa condizione possa convivere con una grande flessibilità del mondo del lavoro. Comprendo quanto faccia paura, ma credo che oggi la flessibilità del mondo del lavoro sia una condizione molto importante se non fondamentale per attrarre investimenti e quindi per crescere. Non nascondo che spesso mi chiedo se nel momento in cui dovessi trovarmi ad avere una posizione dirigenziale come quelle sopra descritte, sarei in grado di comportarmi diversamente.
Nel cercare di analizzare questo circolo vizioso ho constatato un connotato sociale molto forte, perché – rispetto al clima sociale che ha permesso alle storie imprenditoriali di cui ho sentito parlare, che ho studiato e letto, e che hanno fatto dell’Italia una potenza industriale e innovativa tra le migliori al mondo – oggi percepisco un clima diverso, percepisco un forte egoismo, la voglia e l’intenzione di guardare al nostro, senza voler rischiare, senza voler provare. Percepisco una mancanza di tensione verso il prossimo, che in termini economici significa contrazione, perché se potrei assumere ma non lo faccio, magari io divento un più ricco ma tolgo la possibilità a un altro individuo di percepire un reddito, quindi di consumare. Io consumerò di più ma in termini assoluti la crescita sarà inferiore rispetto a quanto potrebbe essere con l’aggiunta di un nuovo reddito.

Mi chiedo: è possibile che la mediocrità dei livelli dirigenziali possa essere una delle cause principali della fatica del nostro paese di stare al passo degli altri e di rimettersi in carreggiata?

Alberto Pasa

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(L’immagine “Mediocrazia” qui sopra e’ tratta dalla copertina dell’Ep del gruppo “Il Rumore Bianco” presente sul sito https://ilrumorebianco.bandcamp.com.  L’autore dell’immagine e’ Davide Zuanazzi)

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angelo.mincuzzi@ilsole24ore.com

 

  • Angelo Mincuzzi |

    Caro Carlo, lei ha perfettamente ragione. Purtroppo gli esempi di mediocrità manageriale, soprattutto negli ultimi tempi, sono numerosi. E, mi duole dirlo, ma se ne vedono sempre più anche nelle società private, dove sovente prevalgono logiche di potere invece che di merito. È il trionfo di una mediocrazia che non promette nulla di buono.

  • Carlo |

    Si, purtroppo la mediocrazia ha da parecchi anni intaccato il sistema dirigenziale, il quale a sua volta non ha fatto altro che aprire le porte ad assunzioni di altrettanti mediocri perche’ sono della stessa specia, quindi devono vivere tra di loro per poter far continuare la specie.

    La mediocrita’ dirigenziale e’ miope verso le idee originali e l’organico, ma ci vede bene quando legge solamente i dati maketing per stare a galla come modello business. Manager che invece di delegare diventano padri-padroni e smantellano la piramide per spalmare tutto su tutti.

    Le aziende falliscono quando non pensano ed agiscono in modo omogeneo, ma spesso e volentieri decidono di remare contro i propri impiegati e sistema per motivi di ego e sfida autoritaria al loro potere. Questa mentalita’ contribuisce a soffocare lo sviluppo delle PMI in questo paese.

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