Mediocrazia, così il «potere dei mediocri» ha ucciso il pensiero libero nelle università

Le università sono il regno della mediocrazia? Prigioniere dei finanziamenti privati, hanno rinunciato a essere il laboratorio dello “spirito critico” a tal punto che il rapporto di subordinazione nei confronti di chi le sovvenziona ha corrotto alla base l’istituzione. È ciò che scrive nel libro “La Médiocratie” (Lux Editeur), il filosofo canadese Alain Deneault, che dedica un intero capitolo a un mondo che conosce da vicino perché ne fa parte: il mondo accademico. E il ritratto che ne emerge è del tutto desolante. Un quadro capace di provocare reazioni infuriate all’interno dell’ambiente universitario per le ragioni più diverse.

Certo, si potrebbe dire che in Italia siamo abituati a tutto questo. Si potrebbe aggiungere che i casi di nepotismo e di corruzione che hanno riempito le pagine di cronaca negli ultimi anni possono averci assuefatti a un realtà da cui spesso faticano a emergere gli esempi positivi, che tuttavia ci sono e sono molti. Si potrebbero precisare tante cose. Ma l’analisi di Deneault, per quanto possa apparire troppo crudele, ha il pregio di farci riflettere sulla strada lungo la quale ci siamo incamminati.

Che cosa sia la mediocrazia e perché i mediocri abbiano preso il potere nel corso della “rivoluzione anestetizzante” avvenuta negli ultimi anni sono i temi di due precedenti post basati sul libro di Deneault.

LEGGI QUI IL POST La “mediocrazia” ci ha travolti, così i mediocri hanno preso il potere
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Vale la pena adesso di andare più a fondo e di capire perché secondo Deneault le università sono il regno della mediocrazia.

Le università? Si sono trasformate in un prodotto

Nel suo libro “Empire of Illusion”, il giornalista (Premio Pulitzer) e scrittore americano Chris Hedges accusa le università di élite di aver rinunciato a qualsiasi forma di autocritica: «Rifiutano di mettere in discussione un sistema che ha nella sua conservazione la sua ragione d’essere». L’università è diventata né più né meno che una componente del sistema industriale, finanziario e ideologico attuale. Ecco allora che le imprese pretendono che le università forniscano loro il sapere di eccellenza e le persone di cui hanno bisogno. Finanziano gli atenei che sono già finanziati (poco e male per la verità) dai fondi pubblici. Comincia la lenta (o veloce, a seconda dei casi) trasformazione delle università in appendici delle organizzazioni private.

Una metamorfosi che segue le sue regole, anche esteriori. E così le aule universitarie vengono ribattezzate con il nome dell’impresa che ha elargito una certa quantità di finanziamenti, il dipartimento e la cattedra vengono denominati come la società che ha provveduto a fornire i fondi necessari per portare avanti una determinata ricerca. Tutto diventa prodotto e – come vogliono le regole del marketing e della comunicazione – bisogna che si sappia chi ha finanziato cosa.
Un centinaio di anni fa anche Max Weber aveva parlato di mediocrità riferendosi all’atteggiamento di subordinazione delle università ai rapporti di natura commerciale. Era il 1919 e da allora qualcosa è cambiato ma Deneault insiste (forse con eccessivo purismo) sulla contaminazione tra mondo degli affari e mondo accademico e soprattutto sulle conseguenze di questo rapporto. A esemplificare la condizione di subalternità delle università, l’autore di Mediocrazia cita una frase pronunciata dal rettore dell’ateneo di Montreal nel 2011: «I cervelli devono corrispondere ai bisogni delle imprese». In quel periodo, rammenta il filosofo canadese, nel consiglio di amministrazione dell’ateneo sedevano rappresentanti dell’ambiente bancario, industriale, petrolifero e dei media. Eppure l’università di Montreal è ancora largamente finanziata dallo stato.

Questo stato di sudditanza Libero Zuppiroli, professore universitario e autore del libro “La bulle universitaire. Faut-il poursuivre le rêve américain?” (Editions d’en bas), l’ha osservato in Svizzera, quando l’Ecole polytechnique di Losanna si è trasformata nello Swiss Institute of Technology. Zuppiroli si è chiesto come i professori universitari delle migliori università tecnologiche mondiali possano ancora trovare il gusto di insegnare quando sono costretti a spendere la maggior parte del loro tempo a ricercare fondi e a occuparsi di marketing. Il sistema universitario attuale, è la domanda che Zuppiroli si pone, non conduce alla morte dell’immaginazione e della libertà necessarie alla creazione intellettuale?

Ricercatori precari soggiogati dalle pubblicazioni

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La mediocrità – sostiene Deneault (nella foto sopra) – è anche quel sistema che costringe i ricercatori a produrre lavori su lavori soltanto per soddisfare un produttivismo apparente che non ha nulla a che vedere con lo sviluppo critico e libero del pensiero. Un rischio che era stato già sottolineato all’inizio del XX secolo dall’intellettuale tedesco Georg Simmel. La moltiplicazione galoppante degli studi e delle pubblicazioni è un ostacolo al lavoro lento e intimo di assimilazione del sapere. La produzione originale è sostituita dalla produzione in serie ed è qui che si annida la mediocrità.
Ecco dunque che l’università non vende più i risultati delle proprie ricerche ma soltanto il suo marchio, quello che appone sui rapporti e di cui detiene i diritti. E invece di ergersi a garante del pensiero il più possibile obiettivo, spesso si fa strumento di manipolazione dell’opinione pubblica. E se ci ragioniamo con calma ricorderemo decine di studi commissionati a blasonati professori universitari che dimostravano come la costruzione di una determinata opera pubblica oppure la realizzazione di un evento di rilevanza internazionale avrebbero determinato la creazione di decine di migliaia di posti di lavoro e sarebbero stati un volano per l’economia. Previsioni poi puntualmente smentite.
Deneault è spietato nella sua analisi sulla deriva del mondo universitario. Al servizio delle lobby le università hanno abdicato al loro ruolo tradizionale. Per modificare la realtà, dice Deneault, i lobbisti cercano di fabbricare un clima favorevole ai loro interessi, per esempio mobilitando pubblicamente degli “esperti” che essi stessi finanziano. I conflitti d’interesse sono all’ordine del giorno. In un libro di qualche anno fa il lobbista di professione Eric Eugéne (“Le lobbying est-il une imposture?”, Cherche Midi) spiega in che modo i lobbisti ragionano quando devono commissionare degli studi a esperti e professori universitari: «Da dove viene l’esperto? Quali sono i suoi progetti di carriera? Lavora nel settore pubblico e in questo caso pensa di terminare la sua carriera nel settore privato? Chi finanzia il centro di ricerca nel quale lavora? E’ chiaro che l’esperto non è indipendente e che i suoi lavori sono fortemente orientati da chi li finanzia», scrive senza mezzi termini Eugéne. L’università lavora da diversi decenni per rendersi manipolabile da chi le fornisce i fondi, è la tesi di fondo di Deneault.

Cosa significa “giocare il gioco”

Alexander Alfonso, che insegna al dipartimento di economia politica del King’s College di Londra, ha studiato a lungo la struttura organizzativa del narcotraffico e l’ha comparata con quella universitaria. Lo studio (“How academia resembles a Drug gang”) pubblicato sul sito internet della London school of economics, stabilisce un legame tra la sproporzione dei guadagni all’interno delle reti dei trafficanti di droga e quella presente all’interno degli atenei. Gli spacciatori che vendono la droga in strada sono pagati una miseria rispetto ai dealer che siedono nei gradini più alti della scala gerarchica. È un po’ come accade nel mondo accademico, dove i ricercatori precari sono sottopagati mentre i “baroni” hanno una retribuzione molto più alta. Ma cosa spinge spacciatori da una parte e ricercatori dall’altra ad accettare questo stato di fatto? È essenzialmente la prospettiva dei guadagni futuri. È questo il principale motore che li spinge a restare all’interno della struttura.
C’è un altro prezzo da pagare però se si vuole avere la speranza di migliorare la propria situazione di precariato: bisogna “giocare il gioco”. Il gioco è un insieme di regole non scritte e di comportamenti usuali del tutto informali che bisogna rispettare nell’ambiente se si vuole raggiungere i propri obiettivi. E allora bisogna riconoscere l’autorità di chi è collocato gerarchicamente sopra di noi, accettare piccoli ma continui compromessi sui termini da utilizzare nella ricerca che stiamo elaborando, magari sorvolando su qualche aspetto che potrebbe creare imbarazzo in chi finanzia quello studio. E poi, magari, sostituire qualche parola troppo poco moderata, mostrarsi alla serata organizzata dal direttore del dipartimento, contribuire al finanziamento della determinata organizzazione caritatevole e farlo sapere nell’ambiente, complimentarsi con il collega per l’ottimo articolo scritto (e che noi non abbiamo letto). Tutto passa attraverso la partecipazione a certi rituali del tutto informali ma fondamentali. Questo significa “giocare il gioco”.

In Italia malcostume e nepotismo

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Ma ora abbandoniamo Deneault per calarci nella realtà italiana. Quanti di voi (ricercatori, professori o quant’altro) si sono dovuti piegare a queste logiche? Quanti di voi hanno invece portato avanti con fierezza l’eterodossia del proprio pensiero finendo magari per essere marginalizzati dai titolari del pensiero mainstream?
Qualche anno fa la giornalista Cristina Zagaria ha scritto per le Edizioni Dedalo un libro che racconta con casi concreti di quale fattura sia la mediocrità di certa universitaria italiana. Il libro si intitola “Processo all’università – Cronache dagli atenei italiani tra inefficienze e malcostume”. La premessa è una efficace sintesi di una realtà che assomiglia sempre più a una patologia: «Professori che si tramandano le cattedre come fossero un’eredità di famiglia – scrive Cristina Zagaria -, come se l’istituzione fosse una cosa propria. Concorsi truccati, commissioni pilotate, nepotismo, ingiustizie, corse al potere. È questa l’università di “cosa nostra”, che genera docenti tanto corrotti, quanto inefficienti, e studenti che un giorno, imparata bene la “lezione”, saranno i loro replicanti». E ancora: «La “spintarella” è diventata il sistema di selezione più diffuso e in alcuni casi, sempre più frequenti, è arrivato ad assumere veri e propri caratteri mafiosi».
Nel 2008 Roberto Perotti, docente alla Bocconi (nella foto qui sopra), ha scritto un libro che fotografa impietosamente il malcostume e il nepotismo dell’università italiana. “L’università truccata” (Einaudi) è un libro che a leggerlo fa venire il mal di stomaco per le storie che rivela, come il caso della Facoltà di Economia di  un’università italiana dove un quarto dei docenti aveva un parente professore nella stessa facoltà. Da Deneault a Perotti, tutto il mondo è paese. Forse è vero che i mediocri hanno preso il potere.

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Twitter: @Angelo_Mincuzzi

angelo.mincuzzi@ilsole24ore.com

  • Angelo Mincuzzi |

    Credo che il sistema abbia interesse a fare in modo che l’universita’ possa portare avanti in autonomia e liberta’ gli studi e le ricerche che ritiene opportuni. Il progresso e’ fatto di questo. Certo, un collegamento con il mondo delle imprese e’ fondamentale ma deve avvenire nel rispetto delle reciproche autonomie. Quando uno studio e’ piegato a un interesse di parte non va a profitto della collettivita’. Come sempre e’ un problema di bilanciamento di interessi, di pesi e contrappesi che, quando non ci sono, non producono nulla di buono.

  • piero |

    Mi sfugge l’interesse del sistema a sovvenzionare una università che produca consenso e non anche cervelli da usare per il proprio progresso sia pure di solo profitto.

  • Angelo Mincuzzi |

    Renzo, la sua esperienza dimostra che si puo’ fare qualcosa contro la mediocrita’. Certo, e’ difficile ma con la determinazione e la costanza ci si puo’ riuscire. Grazie Renzo per il suo messaggio che invita tutti a non mollare.

  • Renzo Carlucci |

    Finalmente una visione lucida di quello che è successo nel mondo della ricerca e dell’università che tutti nascondono, come una sorta di omertà collettiva.
    Voglio dare un contributo per incoraggiare Roberta a non mollare, in quanto credo anch’io, come Angelo, che sia sulla buona strada.
    Io ho passato più di trent’anni con un piede fuori e uno dentro alle università, dilaniato dalla passione per la ricerca da una parte, e la volontà di evitare la mediocrità dall’altra. E sono riuscito a far ricerca, quella vera. Ho anche avviato due riviste del mio settore che ancora oggi dirigo, con le quali si fa diffusione di risultati scientifici a tutti i livelli. Ed è una bella soddisfazione quando pensiamo a quel mondo inutile di riviste scientifiche attuali riservate e autoreferenzianti, basate quasi sempre sull’investimento finanziario degli autori.
    La lobby della mediocrità è forte ma l’innovazione può nascere solo al di fuori di tale mondo.

  • Angelo Mincuzzi |

    Grazie per questa sua testimonianza, Roberta. Lei sta già’ facendo una cosa eccezionale con la sua esperienza di 18 mesi in una universita’ statunitense. La mediocrita’ purtroppo si puo’ annidare ovunque e in qualsiasi momento puo’ succhiarci via le forze per combatterla. Ma lei un modo per contrastarla ce l’ha e lo ha scritto lei stessa: le menti brillanti che incontra, il senso di stupore che prova leggendo un bel paper. Queste sono le radici alle quali deve aggrapparsi. Le cerchi, le selezioni, le coltivi. E lasci via tutto il resto. Concentri le energie solo su di loro. E poi, riscriva su un altro foglietto la frase di Ashfords e lo metta in tasca. Le dara’ forza nel momento in cui si accorgera’ che sta cadendo in tentazione verso la mediocrita’. Buona fortuna. Ce la fara’.

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