Ecco come la famiglia Riva controllava l’Ilva di Taranto, da Curaçao al Lussemburgo

Spiagge bianche, palme, resort di lusso e casette colorate in stile olandese. Curaçao non è solo il regno dello scuba diving tra i caldi fondali dell’isola caraibica, ma anche il paradiso dove la famiglia Riva, un tempo proprietaria dell’Ilva di Taranto, aveva collocato la cassaforte del suo impero.

Il 31 maggio la Corte d’Assise di Taranto ha condannato in primo grado a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, tra i 47 imputati (44 persone e tre società) nel processo “Ambiente Svenduto” sull’inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico. I due imprenditori rispondono di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro (va ricordato che sono innocenti fino a una eventuale pronuncia definitiva).

A Curaçao, nell’edificio di Kaya Wfg Mensing 36, aveva sede la Luxpack Nv, una società a responsabilità limitata (Llc) con un capitale di appena seimila dollari, che – in cima alla piramide – controllava indirettamente l’Ilva prima delle vicende che ne sancirono il passaggio alla ArceloMittal.

Luxpack è stata liquidata dal registro delle società di Curaçao l’11 luglio 2019, pochi giorni dopo la scomparsa di Adriano Riva, che della Luxpack era il presidente. Adriano era il fratello del patron del gruppo, Emilio Riva, morto nel 2014 all’età di 88 anni.

Managing director della Luxpack era il fiduciario svizzero Claudio Ottaviani, presente all’epoca– come vedremo – anche in altre società della famiglia milanese. La Luxpack era stata fondata l’11 gennaio 1996 ed era l’unica azionista della Monomarch Holding Bv, che possiedeva le società lussemburghesi proprietarie del 39,9% della Riva Fire, che era a sua volta azionista di controllo dell’Ilva.

Slalom tra due continenti

L’impero economico della famiglia Riva era come un grande gioco dell’oca. Per capire dove erano le redini dell’Ilva di Taranto bisognava infatti risalire dalla Puglia a Milano, sede della Riva Fire, e da qui andare ancora più a Nord, fino in Lussemburgo. Qui hanno o avevano sede la Siderlux (cancellata dal registro delle società lussemburghesi il 9 gennaio 2020), la Stahlbeteiligungen (che è ancora attiva, oggi rientra nel gruppo Riva Forni Elettrici e ha chiuso il 2019 con una perdita di 2,5 milioni di euro) e la Utia (che nel 2019 ha perso 5,2 milioni di euro ed è presieduta da Claudio Ottaviani), le società che controllavano le aziende dei Riva sparse nel mondo.

Dal Lussemburgo si doveva poi rimbalzare ad Amsterdam, sede della Monomarch, la holding collocata in cima alle società lussemburghesi (la Monomarch controlla ancora la holding lussemburghese Utia, stando ai documenti consultati nel Granducato), e dall’Olanda bisognava prendere l’aereo, attraversare l’oceano e fermarsi finalmente di fronte alle coste del Venezuela. A Curaçao appunto. Un viaggio di oltre 9.900 chilometri per poi scoprire che il quarto gruppo siderurgico europeo e ventitreesimo nel mondo, con un fatturato di 10 miliardi di euro, 36 impianti produttivi in Italia, Germania, Francia, Belgio, Spagna, Grecia, Tunisia e Canada, e quasi 22mila dipendenti, era controllato da una società di soli seimila dollari, poco più di 4.600 euro.

Tra gli amministratori della Luxpack figurava anche la Ant Management, una società olandese che crea e amministra trust, fondazioni, Llc e società anonime nei più svariati paradisi fiscali del mondo. La Ant Management era anche tra gli amministratori della Monomarch Holding e, anzi, la società olandese dei Riva aveva la sua sede proprio negli uffici di Amsterdam della Ant.

A Curaçao, allo stesso indirizzo della Luxpack risultavano domiciliate altre due società: la Rivas Nv e la Rivas Investment Nv, quest’ultima amministrata proprio dalla Ant Management.

Curaçao è ancora un paradiso fiscale, anche se negli anni ha perso molto del suo appeal a vantaggio della stessa Olanda: le società residenti pagano un’imposta sugli utili del 27,5%, mentre le società off shore costituite prima del 2002 versano un’aliquota tra il 2,4 e il 3%. Dividendi, interessi e royalties sono esenti da qualsiasi ritenuta fiscale.

Sulle rive del Canale di Panama

Fino al 2003 la chiave dell’impero dei Riva non era custodita a Curaçao ma a oltre 1.300 chilometri di distanza, a Panama. Qui nel 1988 era stata costituita la High Class Business Corporation. Gli azionisti della società avevano conferito mandato fiduciario allo studio di avvocati Morgan y Morgan, il cui titolare Juan David Morgan è stato ministro degli Esteri della Repubblica di Panama.

La società, con un capitale di 10mila dollari, è stata liquidata 12 dicembre 2003 ed era proprietaria delle holding lussemburghesi dei Riva, la Utia e la Stahlbeteiligungen. Scorrendo i documenti del registro panamense si scopriva che il presidente della High Class Business Corporation era Claudio Ottaviani, lo stesso fiduciario svizzero che sedeva nel consiglio della Luxpack di Curaçao.

Con Ottaviani, nella High Class c’erano anche gli svizzeri Bruno Cocchi, che nella Confederazione è stato liquidatore della Ras Private Bank (Suisse) Sa e consigliere di Rasbank (Suisse) Sa, e Fausto Gianini, ex amministratore della Ilva Sa, della Banca del Ceresio e fino al 2009 di Unicredit (Suisse) Bank a Lugano.

Ottaviani, Cocchi e Gianini erano amministratori di altre società panamensi, la Inversiones Mojacar, la Portobello Atlantic e la Divala Center, tutte e tre sciolte il 12 dicembre 2003, lo stesso giorno in cui venne liquidata la High Class della famiglia Riva.

Le holding europee

Scendendo un gradino più in basso, al di sotto della Luxpack c’era la finanziaria olandese Monomarch Holding Bv. Monomarch aveva un capitale di un milione di euro e attività per 320 milioni. La holding olandese controlla il 100% della Utia, società lussemburghese di cui Adriano Riva è stato amministratore delegato e il cui presidente – come abbiamo visto – è ancora oggi il fiduciario di Lugano, Claudio Ottaviani.

Utia deteneva il 39,9% della Riva Fire che a sua volta controllava – direttamente e indirettamente – l’87% del capitale dell’Ilva. Il 3 agosto 2012 l’azionista di Utia (Monomarch Holding) aveva immesso 24 milioni di franchi svizzeri (circa 19,6 milioni di euro) nella società attraverso un aumento di capitale di 3,6 milioni di franchi (portandolo da 30 a 33,6 milioni) con l’emissione di 600 nuovi titoli del valore nominale di 6mila franchi ciascuno e con un sovrapprezzo complessivo di 20,4 milioni di franchi.

L’aumento si era reso necessario perché le perdite 2011 avevano toccato i 5,9 milioni di franchi, che si erano aggiunti ai 46,3 milioni di perdite riportate a nuovo, per un totale di 52,3 milioni di franchi complessivi. Oggi Utia (che non ha alcun rapporto con Ilva) registra perdite a nuovo per quasi 228 milioni di euro.

Alla fine del 2012, le società lussemburghesi dei Riva erano state oggetto di alcune operazioni che avevano modificato l’assetto del controllo dell’Ilva. Fino al 2011, il 25,38% dell’Ilva era controllato dalla Stahlbeteiligungen, holding posseduta dalla Riva Acciaio. Nel 2000 la Stahl aveva assorbito tre società di famiglia create nel Liechtenstein agli inizi degli anni 70: la Sibelmauer, la Ascina e la Interiron.

Oltre alla quota nell’Ilva e al 25% della Riva Energia, la Stahl controllava gli impianti dei Riva in Canada, Belgio, Spagna, Germania e Francia (e tranne quello francese li controlla tuttora, almeno stando al bilancio 2019).

Il 17 ottobre 2012 la Stahl si era fusa con la Parfinex, una società lussemburghese dei Riva creata per l’occasione. Poco meno di un mese dopo, il 23 novembre, l’assemblea degli azionisti della Stahl aveva approvato la scissione della società. La Stahl aveva conservato quasi tutte le partecipazioni tranne la quota del 25,38% dell’Ilva, che era stata conferita a un’altra società lussemburghese, la Siderlux, controllata all’epoca al 100% dalla Riva Fire.

Il controllo dell’Ilva

Come conseguenza di questi movimenti, l’Ilva era controllata per il 61,62% dalla Riva Fire, per il 25,38% dalla Siderlux (posseduta a sua volta dalla stessa Riva Fire), per il 10,05% dalla Valbruna Nederland, società olandese della famiglia Amenduni, e per il 2,95% dalla Allbest, un’altra società lussemburghese.

La Allbest, che aveva acquistato la quota dell’Ilva dagli Amenduni nel 2007, aveva la sua sede legale presso lo stesso domicilio della Utia. Al momento della costituzione della società (il 22 dicembre 2006), inoltre, gli azionisti della Allbest erano rappresentati da Alain Thill, lo stesso professionista che nell’assemblea del 3 agosto 2012 aveva sottoscritto per conto della Monomarch Holding l’aumento di capitale della Utia.

Ma chi erano gli azionisti della Allbest? La società era stata fondata dalla Bright Global domiciliata nelle Isole Vergini Britanniche e dalla Daedalus Overseas, con sede a Panama. Nel marzo 2009 tra gli azionisti era comparsa anche la Companies & Trust Promotion, società presente nella Limbo e nella Canoe, le vecchie holding lussemburghesi della famiglia Ligresti.

Gli schermi della fiduciaria

Dunque, prima delle vicende che portarono al passaggio al gruppo indiano Mittal, l’Ilva era controllata per l’87% del capitale dalla Riva Fire, la quale era posseduta per il 39,9% dalla Luxpack di Curaçao attraverso le società lussemburghesi e la holding olandese.

Dietro il restante pacchetto del 60,1% della Riva Fire c’era sempre a famiglia milanese, ma la proprietà era stata schermata da una società fiduciaria. Infatti il 35,1% della Riva Fire era nelle mani della Stahlbridge Srl, ma la totalità del suo capitale era intestato fiduciariamente alla Carini società fiduciaria di amministrazione e revisione di Milano. La stessa Carini fiduciaria controllava anche il restante pacchetto del 25% della Riva Fire. Una quota nei paradisi fiscali, un’altra dietro il paravento di una fiduciaria: la famiglia Riva, di sicuro, non amava le luci della ribalta.

Il processo di Taranto

In merito alla sentenza della Corte d’Assise di Taranto, l’Avvocato Luca Perrone, difensore di Fabio Riva ha commentato la decisione affermando che “i Riva hanno costantemente investito ingenti capitali in Ilva al fine di migliorare gli impianti e produrre nel rispetto delle norme. Il totale degli investimenti erogati sotto la loro gestione ammonta a 4,5 miliardi di euro, di cui 1,2 miliardi di natura specificatamente ambientale. Cifre e numeri che sono stati certificati dal Tar e dalle due sentenze del Tribunale e della Corte di Appello di Milano di assoluzione piena perché i fatti non sussistono, perché non c’è stato dolo e perché gli investimenti realizzati sono stati veri e cospicui. Come inoltre ammesso dagli stessi periti, sotto la gestione dei Riva Ilva ha sempre operato e prodotto rispettando tutte le normative vigenti”.

 Come anche certificato dall’Arpa – ha aggiunto l’avvocato Perrone – nel corso della gestione Riva sono state adottate le migliori tecniche-tecnologie allora disponibili (Best Available Technology del 2005) e come sempre i Riva si sarebbero prontamente adeguati anche a quelle del 2012 nei quattro anni successivi previsti dalle normative. Si pensi che il Piano ambientale del gestore odierno ha un termine fissato al 2023 – che verrà tra l’altro probabilmente prorogato al 2025 – che corrisponde all’adeguamento alle stesse sopracitate Bat del marzo del 2012. Nella condotta della gestione Riva non c’è mai stata nessuna forma di dolo, ma solo lo sforzo continuo di adeguare gli impianti e il loro operato ai limiti sempre più stringenti delle normative ambientali, limiti – ripeto – sempre rispettati.”

Anche l’avvocato Pasquale Annicchiarico, difensore di Nicola Riva, ha ribadito che  “Nicola Riva è stato presidente solamente due anni, dal 2010 al 2012 e sotto la sua presidenza si sono raggiunti i migliori risultati ambientali della gestione Riva con valori di diossina e benzoapirene bassissimi che si collocano a meno della metà dei limiti consentiti dalla legge. Risultati straordinari dovuti agli investimenti quantificabili in oltre 4 miliardi di euro e alla gestione degli impianti sempre tesa al massimo rispetto delle normative ambientali”.

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  • Melanie van den Bril |

    Forse sarebbe stato utile fare anche processo al morale di queste persone!

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