Così un film racconta la ragnatela del secondo impero britannico: da potenza politica a centro globale dei paradisi fiscali

Cosa sono i paradisi fiscali? E perché mai dei luoghi così lontani dalla vita di tutti i giorni dovrebbero interessare la gente comune alle prese con i grattacapi quotidiani, le spese che aumentano, il lavoro che manca, i servizi pubblici che peggiorano? Già, perché?

Non è semplice far comprendere lo stretto legame che unisce la nostra vita a queste entità che ci appaiono fumose e lontane. Il linguaggio della scrittura, forse, non è quello giusto. O almeno non è quello in grado di arrivare dritto al cuore dei cittadini comuni. Eppure il ragionamento sarebbe semplice: se qualcuno nasconde i soldi nei paradisi fiscali non pagherà le tasse nel tuo paese e allora tu le dovrai pagare per lui e mancheranno i soldi per costruire scuole, strade, ospedali, per mettere in sicurezza il territorio e per pagare i sussidi di disoccupazione.

Forse però il inguaggio delle immagini è più efficace e può sollecitare il cervello, il cuore, la pancia contemporaneamente. Arrivando a far comprendere a un pubblico più ampio ciò che la scrittura non è in grado di fare. Deve essere stato questo il ragionamento che ha spinto un regista (Michael Oswald) e un attivista dei movimenti per la giustizia fiscale (John Christensen) a mettere insieme le energie per dare vita a un film sul paradiso fiscale per eccellenza. Il più grande e il più insospettabile: il Regno Unito.

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The spider’s web: Britain Second Empire“, ovvero “La ragnatela: il secondo impero britannico”. Sottotitolo: un’inchiesta nel mondo delle giurisdizioni segrete britanniche e della City di Londra. È questo il film che verrà proiettato per la prima volta il 14 settembre alla Royal Society of Arts di Londra e che spiegherà perché la Gran Bretagna e la sua capitale sono diventati il più grande paradiso fiscale del mondo contemporaneo.

Con un’inchiesta della serie “Fiume di denaro”, il Sole 24 Ore ha raccontato lo scorso aprile questo aspetto del Regno Unito poco conosciuto ai più ma che acquista una rilevanza ancora più grande alla vigilia della Brexit. Potete leggere qui gli articoli dell’inchiesta e vedere i video sullo stesso argomento.

Ma sarà interessante scoprire come gli autori del film racconteranno in che modo la Gran Bretagna è riuscita a trasformare il suo potere coloniale in un potere finanziario globale. Perché questo è ciò che è avvenuto. Quando alla metà degli anni 50 del secolo scorso l’impero britannico si è disgregato, le istituzioni della City di Londra hanno cominciato a creare una rete di giurisdizioni segrete offshore che hanno attratto soldi e patrimoni da tutto il globo e li hanno nascosti dietro strutture finanziarie opache. Oggi, sostengono gli autori del film, circa la metà delle ricchezze globali offshore potrebbe essere nascosta nelle giurisdizioni segrete britanniche.

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John Christensen (nella foto qui sotto), co-fondatore di Tax Justice Network, spiega che nel 1956, con il suo impero al collasso dopo la crisi di Suez, la Gran Bretagna fronteggiava una grave crisi economica e politica. La sterlina era sotto pressione e la Banca d’Inghilterra decise di consentire alle banche londinesi di utilizzare il dollaro come moneta per i loro prestiti e per le operazioni di finanziamento.

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«La Banca d’Inghilterra – sottolinea Christensen – decise di non regolare questo nuovo mercato “offshore” in modo che queste transazioni potessero essere considerate come avvenute “altrove”, anche se in realtà gli scambi avvenivano proprio sul suolo britannico». Nacque così il mercato dell’Eurodollaro.
Le banche londinesi (ma non solo) crearono delle filiali offshore a Saint Helier, capitale dell’isola di Jersey, dove potevano registrare le loro operazioni senza pagare le tasse previste nel Regno Unito.

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Il business esplose. E non solo a Jersey. Ben presto, con il supporto del governo di Londra, altre dipendenze britanniche vollero la loro fetta di torta. Le Bermuda diventarono un centro offshore per il mercato delle riassicurazioni, le isole Cayman si aggiudicarono il business dal Nord America. Anguilla, le Isole vergini britanniche, Gibilterra, le isole Turks & Caicos e gli altri territori si lanciarono con successo nel mercato dei servizi finanziari offshore.
Al centro di questa ragnatela c’era (e c’è) Londra. E la Brexit rischia di dare ancora più forza a questo secondo impero britannico.

angelo.mincuzzi@ilsole24ore.com

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  • Massimiliano L. |

    Quando si parlerà del fatto che è tutto un bluff quello di scambiare info bancarie, dato che in certi paesi paradisi fiscali se sei residente e apri conto come residente la banca non scambia con il tuo vero paese di residenza, quindi l’Italia. Guardi il caso di Panama, dove ci si prende la residenza pur non dichiarandola in Italia senza iscrizione Aire; il conto a Panama lo apri come residente e poi per magia tutti i trattati di scambio in essere cessano. Per magia dato che la banca non scambia info sui propri residenti con nessun altro paese essendo un paradiso fiscale. La prova? https://www.panama-immigration.net o legga questa intervista (http://www.metallirari.com/ottenere-la-residenza-a-panama-uno-degli-ultimi-paradisi-fiscali/) e vede che basta poco, solo viaggiare a Panama starci meno di una settimana e si ritorna liberi dal fisco. Non è che questa procedura la fanno in molti altri, a pensar male…

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