Le vite spezzate dei whistleblowers. Ecco perché bisogna ricompensare chi denuncia

Bisogna sentirlo sulla pelle cosa significa veder scivolare la propria vita verso l’inferno, perdere il lavoro, gli affetti, la normalità. E’ il paradosso dei whistleblowers, di chi a un certo punto della propria esistenza decide di dire no e di rivelare i buchi neri che qualcuno vorrebbe tener nascosti. “Sono dentro una storia che non avrebbe dovuto esistere”, racconta Stéphanie Gibaud, ex responsabile del marketing e della comunicazione in Francia della banca svizzera Ubs. Nel 2008 Stéphanie Gibaud ha visto ciò che non doveva vedere. Ha disobbedito a un ordine. E ha denunciato. Ha oltrepassato il confine invisibile che trasforma una persona normale in un whistleblower. Un lanciatore d’allerta, come dicono in Francia. Da allora è cominciata la lenta discesa verso una vita diversa da quella sperata. Perché la verità ha un prezzo, e quasi sempre è un prezzo troppo alto da pagare.
Stéphanie Gibaud non è l’unica. Da quando Julian Assange ha dato vita all’esperienza di WikiLeaks sembra che i whistleblowers si siano moltiplicati nel mondo. Assange paga il suo prezzo, rinchiuso da quattro anni nella sede dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Paga anche Edward Snowden, ricercato negli Stati Uniti e rifugiato in Russia per aver denunciato i programmi di ascolto su scala mondiale della Nsa. E Chelsea Manning, ex analista militare dell’esercito degli Stati Uniti, sconta una condanna a 35 anni di carcere per aver rivelato documenti segreti sulla guerra in Afghanistan. Assange, Snowden, Manning sono anche i testimonial di “Anything to say?” (che vedete nella foto in alto), un’opera itinerante dell’artista Davide Dormino. “Anything to say?” è una scultura in bronzo, a grandezza naturale, che raffigura i tre uomini in piedi su tre sedie e una quarta sedia vuota a disposizione di chi vuole dire qualcosa al fianco dei tre whistleblowers. L’opera rappresenta il coraggio di voler sapere e di rifiutare di essere controllati. Snowden, Assange e Manning sono stati scelti come esempio di rivoluzionari contemporanei, eroi controversi, soggetti amati e odiati ma comunque capaci di scardinare le regole di un sistema di controllo che gestisce le nostre vite.

Rudolf Elmer, Antoine Deltour e gli altri

Il prezzo della verità è stato pesante anche per Rudolf Elmer, ex banchiere della Julius Baer nelle Isole Cayman, licenziato, pressato psicologicamente, diventato un whistleblower. Nel 2011 Elmer consegna pubblicamente ad Assange due cd rom con nomi e dati sul sistema messo in piedi nella Julius Baer per permettere ai clienti di evadere le tasse. Elmer viene arrestato, poi rilasciato e sottoposto a stalking e a pressioni psicologiche che coinvolgono pesantemente anche la sua famiglia. Ha raccontato il suo “inferno” nel libro “Tax Heavens. The demonization of a Swiss whistleblower” e la sua storia è diventata un film, “A leak in paradise“, del regista David Leloup. Difficile rimarginare le ferite.
Un anno di carcere con la condizionale è invece la punizione che i giudici del Lussemburgo hanno inflitto ad Antoine Deltour, ex dipendente della PricewaterhouseCoopers che ha rivelato al mondo l’esistenza degli accordi segreti tra alcune multinazionali e l’agenzia fiscale del Lussemburgo. Il caso LuxLeaks non ha avuto nessuna conseguenza politica per chi ha permesso un'”ottimizzazione fiscale” così spinta, alla base di un’elusione fiscale dannosa per il fisco di molti paesi europei. Le conseguenze, invece, le sta vivendo Deltour, a cui si deve il merito di aver portato un po’ di trasparenza.

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L’elenco dei casi è ancora lungo. Di Hervé Falciani si è parlato nel 2010, quando la lista dei presunti evasori fiscali della Hsbc Private Bank di Ginevra raggiunse l’Italia, e poi nel 2015 con la pubblicazione dei nomi sui giornali di tutto il mondo: l’affaire SwissLeaks.
Gibaud, Falciani. Sono dei moderni eroi. Sono i granelli di sabbia che distruggono l’ingranaggio. Portano sulle loro spalle il peso del proprio senso civico ma hanno comunque deciso di non arrendersi. Nonostante tutto e nonostante tutti. Solo conoscendoli si può avere un’idea di qual è il prezzo che pagano. Il prezzo della verità.

Stéphanie Gibaud e la contabilità parallela dell’Ubs

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Il libro che Stéphanie Gibaud (nella foto qui sopra) ha scritto sulla sua esperienza è un pugno nello stomaco. Si intitola “La femme qui en savait vraiment trop” (Le Cherche-Midi) e ripercorre la sua vita di prima e quella di poi. Ciò che interessa ora, però, è la vita di adesso. Incontro Stéphanie Gibaud nel suo appartamento in uno dei più lussuosi arrondissement di Parigi. Una bella casa, ben arredata, due figli, un grande cane dal pelo chiaro. Si respira aria di benessere o almeno si capisce che alla Ubs si guadagnava bene. Stephanie parla indifferentemente il francese e l’inglese. A tavola preferisce rivolgersi al figlio nell’idioma anglosassone. È abituata a viaggiare, ad avere relazioni con persone di alto livello economico, con i ricchi e con i super-ricchi. In fondo questo era il suo lavoro e lei lo sapeva fare bene.
Racconta che un giorno di giugno del 2008 la polizia si presenta nella sede della Ubs di Parigi per perquisire l’ufficio del direttore generale. I suoi superiori le chiedono allora di distruggere dal suo computer alcuni dati sui clienti di Ubs France. Stephanie rifiuta. “Ignoravo – sospira – che la mia vita normale di lavoratrice, di cittadina, di donna e di madre sarebbe volata via”. È chiaro che da quel momento Stéphanie Gibaud non ha più la fiducia dei vertici di Ubs. Cominciano le pressioni, anche psicologiche, per metterla da parte. Pressioni che Stéphanie racconta nel suo libro. Fino a quando viene licenziata. Cosa ci fosse in quei file che dovevano essere distrutti lo ha raccontato con dovizia di particolari il giornalista Antoine Peillon nel libro “Ces 600 milliards qui manquent à la France” (Seuil). Erano le prove dell’esistenza di una lista parallela di clienti di Ubs France, il cosiddetto “carnet du lait”, e del fatto che i gestori della banca arrivavano direttamente dalla svizzera per svolgere attività in Francia senza averne l’autorizzazione. Quando lo scandalo esplode, i magistrati francesi mettono sotto inchiesta la casa madre svizzera Ubs Ag per riciclaggio aggravato da frode fiscale e le impongono una cauzione record di 1,1 miliardi di euro. Ubs France viene a sua volta indagata per complicità nei medesimi reati e viene obbligata a versare una cauzione di 40 milioni di euro.
Sul giornale online Mediapart, Stéphanie Gibaud racconta senza giri di parole la sua situazione paradossale. «Non ho ingannato nessuno, non ho rubato nulla, non ho mai mentito, ho aiutato dei funzionari del mio paese a decifrare dei meccanismi e dei processi che erano a loro sconosciuti, ho risposto a ciò che mi è stato chiesto; ma il governo francese mi ha abbandonato. Apparentemente tutto è normale. Apparentemente tutto va bene. Ma queste sono solo le apparenze. Dietro la partecipazione a un programma televisivo, a un’intervista, un’audizione o una presentazione in un tribunale, c’è una vita che è crollata e ci sono dei danni collaterali che il pudore non mi permette di spiegare».
Mentre osservava il suo mondo crollare, nell’appartamento di Parigi Stéphanie Gibaud ha trascorso gli ultimi anni a ricostruire i documenti per provare il torto subito. Ha vinto la battaglia giudiziaria contro Ubs ma i 30mila euro di risarcimento non bastano nemmeno a pagare le spese degli avvocati. Dall’estate del 2014 vive con un assegno sociale di 400 euro al mese. Contrariamente a Snowden, Assange e Manning, Stéphanie è libera, può parlare, muoversi e viaggiare. Reagisce diffondendo la voce dell’organizzazione di cui è presidente, Pila (Plateforme internationale des lanceurs d’alerte) e si è presentata alle elezioni municipali di Parigi tra le fila di Debout La France, il partito gollista di Nicolas Dupont-Aignan. Eppure – ha scritto – «la mia pena è invisibile ma reale: senza reddito, sono destinata dalla precarietà a una morte lenta e dolorosa. E oggi, il giorno del compleanno di uno dei miei figli, dobbiamo lasciare il nostro appartamento. Per andare dove e per fare cosa?». Difficile vivere così. Stéphanie, però, non ha nessuna intenzione di mollare.

Hervé Falciani, una vita sotto protezione

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«Sacrifici? Non credo di averne fatti o almeno per me non lo sono stati. Ho fatto una scelta e non me pento». È difficile scalfire la forza di Hervé Falciani (nella foto qui sopra). Nemmeno nei momenti più difficili l’ex dipendente della Hsbc (una delle più grandi banche del mondo) ha mai cercato di tornare indietro. Di riannodare, cioé, i fili del tempo fino alla decisione di partecipare alla più grande operazione di furto di dati bancari mai avvenuta nella storia: centinaia di migliaia di file della Hsbc Private Bank prelevati e consegnati alla giustizia francese, solo alcuni dei quali venuti alla luce sui giornali con la pubblicazione delle carte di SwissLeaks nel febbraio 2015. Eppure, da quella decisione, la vita di Falciani e della sua famiglia ne sono uscite completamente sconvolte. Di lui si è occupato recentemente anche il settimanale New Yorker con un lungo articolo.
Ho frequentato Falciani per sei anni per comprendere a fondo il senso dell’operazione Hsbc e per capire i sistemi utilizzati nella banca per favorire l’evasione fiscale dei clienti. Dagli incontri sono scaturite alcune inchieste per il Sole 24 Ore e un libro pubblicato un anno fa (“La cassaforte degli evasori“, Chiarelettere) tradotto in sette lingue e uscito anche in Cina e in Giappone. Ho conosciuto anche il lato privato di Falciani, quello che il whistleblower franco-italiano tende a non raccontare nelle interviste.
Fino alla vigilia di Natale del 2008, Falciani è un brillante ingegnere informatico della Hsbc a Ginevra. Conduce una vita normale, ha un ottimo stipendio, una promozione appena ricevuta e prospettive di carriera interessanti all’interno del mondo bancario svizzero. Potrebbe essere soddisfatto della sicurezza economica conquistata e del suo futuro nella banca. In realtà non lo è. Ha visto troppo. E ciò che ha visto non gli piace. Parte da qui la sua decisione di denunciare un sistema di evasione fiscale di tipo fordista che si esercita soprattutto attraverso la creazione di società scudo nei paradisi fiscali. Una parte della sua storia è stata già descritta ed è stata anche al centro del film del regista Ben Lewis “Falciani’s tax bomb“. Ma la storia privata di Falciani nessuno l’ha mai raccontata.
Quando decide di diventare un whistleblower, Falciani non ne è ancora conscio ma entra in un gioco più grande di lui, fatto di guerre geopolitiche sotterranee, servizi segreti, ambizioni politiche, interessi economici leciti e illeciti ma sempre milionari. I soldi e i segreti scatenano forze pericolose. Anche per la sua vita. Gli uomini che lo aiutano a prelevare e ad analizzare i dati della Hsbc gli propongono di cambiare identità e di sottoporsi a una plastica facciale. Insomma, di sparire. Falciani rifiuta. Vuole che i file della Hsbc vengano consegnati alla giustizia francese e che venga aperta un’inchiesta formale. Sa che se sparisce, i documenti rimarranno chiusi in qualche cassetto. Ma è la scelta più rischiosa, perché fino a quando i dati non saranno di dominio pubblico, qualcuno potrebbe decidere di eliminarlo dalla scena per sbarazzarsi di un testimone. La gendarmeria e i servizi segreti francesi lo sanno bene e lo mettono sotto protezione. Lui e la sua famiglia. Falciani vive come un animale braccato. Passa giorni e notti con gli uomini della Direzione nazionale delle inchieste fiscali a decifrare i documenti della Hsbc.
In quel periodo lo incontro spesso, con le dovute precauzioni. I telefoni sono banditi e ogni volta devo passeggiare a lungo in luoghi aperti o sulla spiaggia di una cittadina della Costa Azzurra prima di incontralo. Chi lo protegge deve verificare se sono “pulito”, se qualcuno mi segue. Anche il mio telefono è sotto controllo. A volte Falciani appare teso, quasi arrabbiato: mi confida che in Francia vogliono insabbiare l’inchiesta. Sarebbe la cosa peggiore per lui. Nella primavera del 2012 sparisce per alcuni mesi e ricompare scortato da quello che definisce il suo “angelo custode”. Quel che temevano è avvenuto: hanno tentato di sbarazzarsi di lui ma non ci sono riusciti. L’inchiesta in Francia sembra essere davvero insabbiata.
Pochi mesi dopo, a luglio, Falciani riappare in Spagna. È in carcere. Chi lo protegge ha deciso che facendosi arrestare in Spagna sarebbe stato più al sicuro e avrebbe potuto far ripartire le inchieste giudiziarie. Passa sei mesi in prigione a Madrid, lontano dalla famiglia. Vive la vita dei prigionieri, che leggono Gomorra e si allenano nelle arti marziali. Quando viene rilasciato, la procura anticorruzione spagnola lo sottopone a un programma di protezione 24 ore su 24. Me ne rendo conto quando lo incontro nella capitale spagnola all’inizio del 2013: Falciani non dorme mai nello stesso posto, viaggia scortato da quattro uomini armati in due macchine, la sua valigia nel bagagliaio. I luoghi nei quali si ferma vengono prima bonificati, le persone che lo incontrano devono essere autorizzate, identificate e perquisite. All’udienza del tribunale di Madrid che nega l’estradizione in Svizzera, Falciani compare camuffato con grandi occhiali e una parrucca per rendere più difficile il suo riconoscimento. Una vita da paura.


Ancora oggi Falciani vive lontano dalla famiglia, non usa il telefonino e segue un protocollo di sicurezza a tutela della sua incolumità. È stato condannato in Svizzera a cinque anni di reclusione e può spostarsi solo in Francia, in Italia e in Spagna. Per vivere ha trovato lavoro per qualche tempo in un istituto di ricerca in Costa Azzurra. Ha lavorato anche a Bercy, al ministero delle Finanze francese. Oggi ha un sussidio di disoccupazione e sta cercando di crearsi una nuova attività. Il tutto a un prezzo altissimo per se stesso e per la sua famiglia, senza più una casa stabile, nell’incertezza economica e senza un aiuto dallo stato francese.
«Mia figlia – mi ha raccontato – ha bisogno di attenzioni e di cure costanti a causa di un deficit genetico. Guardandola pensavo con tenerezza al suo futuro e a volte con mia moglie progettavamo di lasciare la Francia e di trasferirci nella Polinesia francese, in un ambiente dove non sarebbe stata oppressa dalla competizione esasperata e dalla discriminazione. E dove, soprattutto, sarebbe stata circondata da valori come la solidarietà e il senso di comunità. Sentivo di dover fare qualcosa per lei e per le persone come lei». Lo ha fatto. E ne paga ancora il prezzo.

Un sostegno economico per i whistleblowers

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C’è un aspetto, tra tutti, che accomuna queste storie. Né Stéphanie Gibaud né Herve’ Falciani ne’ gli altri sono pentiti della scelta di varcare i confini della normalità e di diventare dei whistleblowers. Hanno agito spinti dal desiderio di verità, di giustizia e di trasparenza, quando si sono accorti che nel loro luogo di lavoro c’era qualcosa di contrario alla loro idea di senso civico. Non immaginavano però le conseguenze della loro scelta. Falciani, poi, riconosce che uno dei paradossi più rilevanti è che per denunciare degli illeciti molto spesso bisogna commettere un reato, come è toccato a lui.
Ecco perché è sempre più necessaria una vera tutela dei lanciatori d’allerta. La legge approvata dalla Camera lo scorso gennaio, e ora all’esame del Senato, è un buon inizio. Un primo passo, però, che si completerà soltanto quando sarà previsto un sostegno economico ai whistleblowers, sul modello della legislazione americana. Negli Stati Uniti ai lanciatori d’allerta è garantito fino al 30% delle risorse recuperate grazie alle denunce. Vale su tutti l’esempio di Bradley Birkenfeld (nella foto sopra), l’ex banchiere dell’Ubs che ha aiutato il Dipartimento alla Giustizia Usa a scovare gli evasori fiscali americani che avevano dei conti nella banca svizzera. Birkenfeld stesso aveva contribuito a questo sistema, per esempio nascondendo diamanti di un cliente Ubs in un tubetto di dentifricio e portandoli negli States. Nel settembre 2012 il Whistleblower Office dell’Internal revenue service (il fisco Usa) gli ha riconosciuto un premio per aver fatto recuperare all’amministrazione americana enormi quantità di soldi degli evasori fiscali, oltre a una multa di 780 milioni di dollari pagata da Ubs. Un premio che lo ha ripagato dei mesi trascorsi in prigione: 104 milioni di dollari. Com’è lontana l’Italia.

Twitter: @Angelo_Mincuzzi

angelo.mincuzzi@ilsole24ore.com