Ecco cosa ci insegnano Cristiano Ronaldo e Lionel Messi sulla globalizzazione e sulle tasse

«Se Ronaldo non può battere l’Uruguay, il minimo che può fare è pagare le tasse». Sottotitolo: «Le manovre finanziarie della stella del calcio portoghese possono dirci molto sull’incapacità del mondo di adattarsi alla globalizzazione». Non è un gioco di parole e neppure una provocazione ma l’headline di un articolo pubblicato sul New York Times dall’economista francese Gabriel Zucman, professore di economia all’Università di Berkeley e autore del saggio “La ricchezza nascosta delle nazioni” (pubblicato in Italia da add Editore).
Zucman è un esperto di paradisi fiscali e negli anni scorsi ha collaborato con l’economista Thomas Piketty alle ricerche per la stesura de “Il capitalismo nel XXI secolo“, un libro fondamentale per comprendere perché le disuguaglianze sono aumentate (anziché diminuire) negli ultimi decenni, quelli caratterizzati appunto dall’ascesa della globalizzazione.

I “vincitori” della globalizzazione

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Qual è il messaggio che Zucman (nella foto qui sopra) vuole diffondere prendendo spunto dal caso di Cristiano Ronaldo? Il giocatore portoghese che secondo alcune voci approderebbe alla Juventus non è soltanto un fuoriclasse nel mondo del calcio ma anche un “vincitore” della globalizzazione. Qui non si parla di merito (le capacità atletiche di Ronaldo sono indiscusse) ma di redditi e – soprattutto – di fisco.

La globalizzazione ha consentito la nascita di un’élite internazionale identificata semplicisticamente nell’1% della popolazione mondiale, una piccola fetta di umanità che a fronte di un aumento dei propri redditi e patrimoni ha visto diminuire negli ultimi decenni  il peso delle tasse pagate, finendo così (magari anche involontariamente) per accrescere le disuguaglianze globali.

CR7 e Lionel Messi

Nell’articolo pubblicato sul New York Times, Zucman ricorda che «il giorno della partita Portogallo-Spagna, Ronaldo, che gioca per il Real Madrid, ha ammesso di aver eluso 14,7 milioni di euro (circa 17,1 milioni di dollari) in tasse tra il 2011 e il 2014. Abbastanza – chiosa Zucman – per pagare 800 insegnanti di scuola primaria spagnola a tempo pieno per un anno o per trattare 1.000 pazienti con cancro al seno». CR7 pagherà così 18,8 milioni di euro di multa.

E Ronaldo non è un caso isolato. Nel 2017, il suo maggiore competitor calcistico, l’argentino Lionel Messi (nella foto qui sotto), che gioca nel Barcelona, è stato condannato a 21 mesi di prigione (commutati in una multa di 455mila euro) per lo stesso reato. Messi ha anche regolarizzato la sua posizione con il Fisco spagnolo versando 30 milioni di euro.

In entrambi i casi, le autorità spagnole hanno ritenuto i giocatori colpevoli di aver eluso le tasse sul reddito derivante dai loro diritti di immagine. «Questi diritti – che come molti altri atleti professionisti avevano trasferito in società in paradisi fiscali esotici – rappresentano gran parte delle loro entrate. Per i migliori giocatori del pianeta, i diritti possono ammontare a molti milioni di dollari l’anno», aggiunge l’economista francese.

Ma perché eludono le tasse?

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Sembra incomprensibile che alcuni degli atleti più famosi del mondo possano frodare le autorità fiscali: dovrebbero sapere che le loro dichiarazioni dei redditi saranno esaminate attentamente e che essere etichettati come evasori fiscali non aumenta certamente il valore della loro immagine o la loro popolarità tra i fan.

Però, come dimostrano i casi di Ronaldo, di Messi e di molti individui benestanti i cui nomi sono finiti in alcuni dei più recenti leaks come i Panama Papers e i Paradise Papers, l’evasione fiscale è pervasiva tra i ricchi. Che si tratti di fuoriclasse dello sport o di semplici rentier poco cambia. Perché, si chiede Zucman? «Non perché siano persone malvagie o impermeabili alle conseguenze delle loro azioni – risponde Zucman – ma perché sono corteggiate da un’industria dell’evasione fiscale globale» che è ormai pervasiva.

Golf, arte, banche e studi legali

Siete mai stati invitati da una banca svizzera a un torneo di golf a Miami o all’apertura di una mostra a Parigi? Probabilmente no. «Nemmeno io», afferma Zucman nell’articolo. Eppure gli “ultrahigh-net-worth individual”, come vengono definiti i “super ricchi”, lo sono regolarmente. Gli studi legali e gli intermediari finanziari vendono ai “super ricchi” società di comodo, conti bancari offshore, trust e fondazioni il cui scopo è quello di nascondere le attività scollegando la ricchezza e il reddito che generano dal loro effettivo proprietario.

«Anche se questa industria si presenta come legale e legittima – argomenta Zucman -, in molti casi i prodotti che vende sono illegali, perché gli individui di solito devono pagare le tasse sul proprio reddito mondiale (se è “guadagnato” nelle Isole Vergini britanniche o in Spagna non fa differenza) e le transazioni il cui unico scopo è quello di evitare le tasse in genere non sono legali. Nel caso di Ronaldo, i pubblici ministeri spagnoli consideravano una circostanza aggravante il fatto che erano state create società di comodo al solo scopo di confondere il fisco».

Ma che ci importa di Ronaldo?

Già, ma per quale motivo ci interessano le entrate e le imposte di Ronaldo, si interroga ancora Zucman? «Perché illustrano il nostro fallimento collettivo nell’adattarci alla globalizzazione, e le lezioni che possiamo trarre da questo esempio vanno oltre il calcio e coinvolgono il resto della società».

Negli ultimi tre decenni, i vincitori della globalizzazione hanno visto i loro redditi schizzare verso l’alto. I diritti d’immagine di Ronaldo – nota Zucman nell’articolo pubblicato dal New York Times – valgono più di un miliardo di dollari perché il suo marchio è particolarmente prezioso per un’azienda come la Nike che ha una clientela mondiale.

Il paradosso fiscale

Ma le aliquote fiscali di questi “vincitori” della globalizzazione, invece di aumentare, sono diminuite drasticamente. Dal 1930 al 1980, la principale aliquota marginale delle imposte sul reddito negli Stati Uniti era in media del 78%; oggi è il 37%. Invece di redistribuire i guadagni dalla globalizzazione, il sistema fiscale li ha concentrati in poche mani. È improbabile che questo percorso sia sostenibile, economicamente o politicamente, afferma Zucman. Ma un rimedio è possibile. E il professore di Berkeley qualche proposta ce l’ha.

Primo. I governi, per esempio, potrebbero ridurre drasticamente l’evasione fiscale aumentando le sanzioni contro gli intermediari che la facilitano. È improbabile che un lungo periodo di detenzione o multe più pesanti avrebbero scoraggiato Ronaldo o Messi. Ma la revoca delle licenze delle banche che aiutano gli evasori fiscali e l’imposizione di sanzioni contro i paradisi fiscali farebbero diminuire la fornitura di servizi di evasione fiscale.

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Secondo. Una volta che l’evasione fiscale sarà stata frenata, i governi potrebbero tassare i redditi più alti a tassi più elevati, per il bene della collettività. E non bisogna credere a quanti sostengono che una misura del genere danneggerebbe l’economia, afferma Zucman.

Guardiamo, per esempio al caso di Ronaldo. La sua immagine sarebbe ancora più preziosa per Nike se il calciatore dovesse pagare più tasse, e a Ronaldo non costerebbe molto pagarle. Quindi non succederebbe niente di negativo. Con un reddito inferiore (al netto delle imposte), il fuoriclasse portoghese segnerebbe comunque tanti gol. E dunque, commenta Zucman, non si fa del male a nessuno se si tassano i Ronaldo sparsi nel mondo. Fermo restando che Ronaldo è un calciatore unico nel suo mondo.

Gli esempi del calcio e del basket Usa

Zucman prosegue nel ragionamento elencando due esempi virtuosi dello sport americano. Gli Stati Uniti in genere non sono noti per le loro politiche fiscali redistributive – premette -, ma anche gli americani comprendono una verità fondamentale: i redditi alti per le star dell’atletica sono socialmente inutili. Ecco perché le leghe sportive americane hanno tetti salariali (come nel caso della National Football League) o tasse sul lusso (come la National Basketball Association) che limitano fortemente quanto le squadre possono spendere per i giocatori.

Non c’è nulla di simile negli sport europei, nota infine Zucman: i paesi attirano i migliori giocatori offrendo loro accordi fiscali e i club dell’Uefa «riciclano miliardi di dollari dagli oligarchi russi, senza limiti di spesa (eccetto per quanto debito possono accumulare)». Quindi, mentre la disuguaglianza, in generale, è aumentata a un ritmo inferiore in Europa rispetto agli Stati Uniti, quando si tratta di sport professionistici si verifica il contrario.

La disuguaglianza è una scelta

Ed ecco la conclusione del ragionamento di Zucman. «Il calcio europeo – con la sua evasione fiscale, la concorrenza fiscale senza ostacoli e la disuguaglianza non vincolata – rappresenta un percorso possibile anche gli altri paesi, ed è quello che gli Stati Uniti stanno attualmente favorendo. Possiamo continuare su questa strada. O possiamo emulare l’Nba invece di imitare l’Uefa. Negli sport professionistici, come nel resto dell’economia, la disuguaglianza è una scelta: le politiche la esacerbano o la prevengono. Alcuni paesi fanno meglio di altri e possiamo imparare dagli altri e dal passato».

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