Quei superbonus dei banchieri e la piaga della povertà in aumento

Quattro milioni e seicentomila poveri in Italia sono un dato drammatico, soprattutto perché si tratta del numero più alto dal 2005 e perché segnala la persistenza di una crisi che sta scavando un solco profondo nella società italiana. Ma ciò che stride di più è una significativa coincidenza temporale con la diffusione di altri dati sui superbonus dei banchieri. L’analisi dell’ultimo Rapporto Istat sulla povertà in Italia è arrivata, infatti, pochi giorni dopo la pubblicazione sul Financial Times di uno studio internazionale della società Equilar sugli stipendi dei banchieri europei, o meglio sui loro super-stipendi. I due studi, naturalmente, non hanno nessuna correlazione tra loro e nessun legame causa-effetto. Tuttavia, se letti contemporaneamente forniscono uno spaccato impietoso della schizofrenia della nostra società, dove la forbice tra ricchi e poveri continua ad allargarsi e dove ormai convivono due paesi sempre più distanti tra loro: il paese delle élite non sfiorate dalla crisi e quello dei ceti medi e bassi che arretrano costantemente. Una malattia grave – in primo luogo etica e morale – che, se non risolta, rischia di provocare effetti nefasti per tutti. Per i poveri ma anche per i ricchi.

I super-stipendi dei banchieri

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Secondo lo studio Financial Times-Equilar, gli amministratori delegati degli otto più grandi istituti di credito italiani hanno ricevuto nel 2015 un aumento di stipendio medio del 9,7% mentre il valore della parte azionaria delle loro retribuzioni è aumentato del 68%. I compensi dei più importanti amministratori delegati delle banche internazionali sono cresciuti in proporzione un po’ meno di quelli italiani: il 7,6%. Probabilmente le banche che dirigono macinano utili e non hanno problemi di crediti in sofferenza così gravi, forse hanno aumentato il valore per i propri azionisti, ma sicuramente il trend dei loro compensi stride in un certo senso con una realtà che procede in direzione contraria. Buon per loro.
Il sistema bancario italiano è appesantito da una massa ingente di crediti deteriorati (i cosiddetti non performing loans o Npl). E questo non è l’unico problema. Alcuni istituti di credito, come Banca Marche, Popolare Etruria, Cassa di Ferrara e CariChieti, sono stati oggetto di un piano di salvataggio che ha lasciato molti feriti tra i risparmiatori e i correntisti, spesso con risvolti giudiziari. Altre banche, come Popolare di Vicenza o Veneto Banca, sono al centro di inchieste della magistratura.

LEGGI il Dossier del Sole 24 Ore sul risparmio tradito
Nelle banche italiane, ma non solo nelle banche, vanno di moda le buonuscite milionarie, anche quando i loro amministratori lasciano eredità pesantissime. L’ex presidente della Popolare di Vicenza, Gianni Zonin, per esempio, ha ricevuto un bonus di un milione di euro per l’ultimo anno di gestione. Samuele Sorato ex amministratore delegato, ha ricevuto una gratificazione di 4 milioni in due tranche, mentre il suo compenso complessivo del 2015 (si è dimesso il 12 maggio) è stato di 4,6 milioni.
Nel 2012 il Monte dei Paschi di Siena ha corrisposto all’ex direttore generale Antonio Vigni la somma lorda di 4 milioni di euro come incentivo per agevolare la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro. E sappiamo quali siano i problemi della banca senese.
Vincenzo Consoli, dal 1997 padre-padrone di Veneto Banca, ha invece chiesto tramite i propri legali il pagamento di 3,46 milioni di euro che non gli sono stati riconosciuti per le sue dimissioni. Per sette mesi di lavoro nel 2015 Consoli ha ricevuto 730mila euro comprensivi dell’indennità di mancato preavviso pari a 150mila euro.
Secondo un rapporto dell’Eba (European banking authority), l’autorità bancaria europea con sede a Londra, nel 2014 i 138 manager bancari italiani più pagati in assoluto hanno incassato un compenso medio di quasi 2 milioni di euro lordi annui (vedi la tabella qui sotto).

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Dov’è il buon senso?

C’è qualcosa che non torna, in tutto questo. Il buon senso vorrebbe che se la banca o l’azienda che amministri o hai guidato è in crisi il tuo stipendio cali o comunque non aumenti. Così dovrebbe funzionare. Così è anche scritto nei manuali che negli ultimi anni hanno diffuso il verbo della retribuzione legata di volta in volta ai risultati, alla creazione di valore, all’aumento del titolo in borsa, all’Ebit, al Mol, ai ricavi e così via. Non è questo ciò che nelle università si insegna agli studenti di Economia e commercio? E perché nella realtà, ai piani alti di alcune imprese (non in tutte, per la verità e per fortuna) sembra che questo legame così tanto enfatizzato sia stato non solo dimenticato ma continuamente mortificato? Il buon senso e la logica vengono continuamente violentati.
È una realtà, questa, difficile da digerire. Soprattutto da quel milione e mezzo di famiglie che in Italia vivono sotto la soglia di povertà assoluta e che non raggiungono la spesa minima necessaria per acquisire i beni e i servizi considerati essenziali per uno standard di vita minimamente accettabile. Ed è difficile da accettare anche per gli altri 2,6 milioni di famiglie che vivono in povertà relativa, cioè con una spesa inferiore a 1.050,95 euro mensili per un nucleo di due persone. Gli stipendi medi in Italia sono generalmente più bassi che negli altri paesi europei più industrializzati. In base a un’indagine della società Od&M Cosulting, nel settore privato la retribuzione annua lorda di un operaio è in media di circa 25mila euro mentre quella di un impiegato è di 30mila euro. Secondo un’indagine di Willis Towers Watson, inoltre, a livello europeo l’Italia è nelle ultime posizioni della classifica media delle retribuzioni: specialmente sui salari d’ingresso, che viaggiano a una media di 27mila euro annui lordi rispetto, per esempio, ai 47mila della Germania.

Variabili indipendenti

Le cifre dei guadagni degli amministratori e dei supermanager delle società quotate sono monitorate costantemente sul Sole 24 Ore da Gianni Dragoni, che sul giornale finanziario cura tra l’altro la rubrica “Pay Watch”. Nel 2008 Dragoni ha scritto (con Giorgio Meletti) il libro “La paga dei padroni” (Chiarelettere) e poi nel 2012 “Banchieri & Compari” (Chiarelettere). “Mentre i lavoratori delle aziende in crisi sono sempre più esposti alla cassa integrazione, alla mobilità e ai licenziamenti, per i grandi manager nulla è cambiato – scriveva Dragoni in “Banchieri & Compari” -. Anzi, in alcuni casi hanno guadagnato addirittura di più che in passato, a prescindere dai risultati. Secondo un’inchiesta de “Il Sole 24 Ore”, nel 2011 i 100 manager più pagati delle società quotate in Borsa a Milano hanno ricevuto in media 3,52 milioni lordi ciascuno, cioè 500.000 euro in più dell’anno precedente, un aumento del 16% circa, mentre l’indice della Borsa di Milano nel 2011 è diminuito del 25%. Dunque molti manager hanno guadagnato di più anche se le azioni delle loro società sono andate male e gli azionisti hanno avuto un danno. Chi decide le buste paga dei supermanager delle aziende quotate in Borsa?”, si chiedeva Dragoni.

Se i top manager decidono dei loro stipendi

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Una risposta la fornisce l’economista francese Thomas Piketty (nella foto qui sopra) nel suo capolavoro “Il capitale nel XXI secolo” (Bompiani), libro nel quale affronta il tema della diseguaglianza. I compensi, scrive Piketty, “in genere vengono fissati dai quadri superiori in linea gerarchica, mentre i compensi dei quadri superiori vengono fissati da loro stessi o da comitati di retribuzione formati da persone che godono perlopiù di redditi analoghi… In ogni caso, vista l’impossibilità di calcolare con esattezza il contributo di ciascuno al prodotto dell’impresa considerata, è inevitabile che le decisioni conseguenti a tali processi di valutazione siano in gran parte arbitrarie, dipendenti da rapporti di forza e dal potere contrattuale degli uni nei confronti degli altri”.
Non solo, dice Piketty: “Non c’è nulla di offensivo nel supporre che chi gode del privilegio di fissare il proprio salario tenda naturalmente ad avere la mano un po’ pesante, o quantomeno a mostrarsi più ottimista della media in merito alla valutazione della propria produttività marginale”. Ma se le persone meglio pagate “arrivano a fissarsi da sole – almeno in parte – il salario, vuol dire che le disuguaglianze diventeranno sempre più forti”, considera l’economista francese.
C’è anche un fattore fiscale che – soprattutto in paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna – ha contribuito ad alimentare le disuguaglianze tra le élite e la gente comune. Negli anni 50 e 60 del secolo scorso “un dirigente americano o britannico aveva poco interesse a battersi per avere un aumento” di stipendio sostanzioso, poiché l’80-90% dell’aumento finiva nelle casse dello Stato. Fra il 1930 e il 1980, infatti, il tasso superiore di imposta sul reddito viaggiava tra l’80 e il 90% mentre tra il 1980 e il 2010 era sceso al 30-40%.
Ecco, dunque, che gli Stati Uniti sono diventati il paese della disuguaglianza per eccellenza e ai massimi livelli di ricchezza si registrano redditi inauditi per i paesi europei.

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Prendiamo, per esempio, il settore degli hedge fund, i fondi di investimento speculativi. Ebbene, secondo la rivista americana Forbes, nel 2015 il manager di hedge fund più ricco è stato Kenneth Griffin del fondo Citadel. Sapete quanto ha guadagnato? Un miliardo e 700 milioni di dollari. Anche James Simons della Reinassance Technologies ha guadagnato più o meno la stessa cifra. Nel frattempo 46,7 milioni di cittadini statunitensi vivono in povertà con meno di 24mila dollari all’anno.

Disegliaglianze e comportamenti scorretti sono le due facce di una stessa medaglia che alimenta il disagio e le tensioni sociali. Eppure non ci vorrebbe molto per alleviare il problema. Basterebbe recuperare un po’ di buon senso ed evitare comportamenti che stridono con i principi di equità e di giustizia. Basterebbe riscoprire davvero il principio della responsabilità: niente bonus al manager che sbaglia.

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angelo.mincuzzi@ilsole24ore.com

  • severino |

    E’ veramente vergognoso dare compensi cosi alti, specialmente ai banchieri italiani, ma purtroppo non sono i soli. Anche le partecipate hanno buchi di milioni, eppure i vertici hanno stipendi assurdi. Ma chi se ne frega, tanto paga lo stato.

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